Tra le altre, della tragedia del naufragio del “Concordia” (certo, che beffa di nome…), mi ha colpito una cosa:
IL CAPITANO HA ABBANDONATO PER PRIMO LA NAVE.
La cosa mi ha davvero scosso, perché è venuta a mancare una delle ultime, inconsce certezze sulla dignità dell’essere umano. Le figure epiche di quelle persone che con le loro azioni ci commuovono e rendono fieri di essere appunto “umani”, ergo quelle creature che dovrebbero differire dagli animali in morale e dignità.
Quel che si è perso, dimenticato, nella nostra epoca, è che il concetto di dignità e completamente e inesorabilmente permeato da quello di moralità. Non può esistere dignità senza moralità. Una persona immorale non può essere dignitosa.
E qua si apre un argomento-voragine.
E chi lo dice cos’ è morale?
Nel mio piccolo, ragionandoci stamattina, mi sono resa conto che il concetto suddetto è reciproco, o forse addirittura funziona al contrario: la persona dignitosa è morale, non può essere immorale.
Dunque ho capito che una cosa è necessariamente anche l’altra. Morale e dignità sono siamesi inseparabili, come la metti la metti. La persona dignitosa – per me – è quella che dovrebbe dire, in situazioni che vanno dalla buona educazione del quotidiano a quelle regole morali autoevidenti come la responsabilità presa o la parola data: “Non mi importa se altri agiscono male nella mia posizione, io non vengo meno.” Quelli che non hanno l’ipocrisia del “cerco di apparire come gli altri mi vorrebbero” ma “sono come appaio e non farò mai male a nessuno per questo”.
Molti anni fa, quando vivevo in Sicilia, ho conosciuto il primo caso della mia vita di persona transessuale.
Vanda, si chiamava (o Wanda, non ricordo come si scrivesse). Lei era una trans un po’ arrangiaticcia, non è che avesse bellissimi vestiti o che trucco e parrucco le riuscissero troppo bene. Insomma, ai miei occhi di bambina appariva una donna mediamente elegante con qualche problema di peluria in eccesso.
Tra parentesi, poi è stata uccisa e mi ricorderò tutta la vita l’articolo della Gazzetta del Sud che la definiva “il noto omosessuale”.
La prima volta che l’ho vista – ero bambina – una cosa mi ha colpito tanto, e cioè due signori che vedendola passare vestita da donna, (parliamo di vestito da donna, mica di piume di struzzo e perizoma di paillettes), hanno detto “che schifo, che vergogna”.
Francamente non capivo vergogna di che, intanto perché ai miei occhi di bambina non risaltava differenza tra lei e le altre signore che passavano per via, e poi perché appunto vedevo semplicemente una signora elegante e dignitosa. Camminava tranquilla e a testa alta. Non è che si tirasse giù le mutande, bestemmiasse o vomitasse per strada. Camminava, vestita bene, facendosi i cavolacci suoi.
Non capivo cosa ci fosse di immorale.
Ora, tra i vari paradossi che mi riguardano, se dovessi trovare collocazione in quella che è stata chiamata la divisione degli umani tra i devoti discendenti del tempo e gli accaniti abitanti dello spazio, è che pur adorando dell’umanità il suo proiettarsi in avanti, mi preoccupa fortemente la Memoria, il tramandare e conservare.
Una delle cose che non riusciamo a tramandare e conservare è la conquista di certi codici di comportamento sia assoluti che del vivere quotidiano che a me mancano assai, pur avendoli vissuti poco e rimpiango quindi più che altro qualcosa che evinco da vecchie foto, vecchi film e racconti degli anziani.
Quei codici hanno a che fare con un principio usando il quale non si può sbagliare mai:
il rispetto degli altri, a prescindere.
Se la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri, qualunque cosa fatta che non faccia male agli altri e non ne violi la libertà, di fatto non è immorale.
Prendersi una responsabilità o tener fede ad una promessa, non è limite alla libertà di nessuno, ma una scelta che mi è possibile proprio perché sono libero.
Per come la vedo io sono immorale e offendo la mia e altrui dignità se considero di essere il centro assoluto del mondo e considero la mia vita e la mia pellaccia più importanti di tutto e tutti, fino a violare quei principi che secoli e millenni di civilizzazione hanno mostrato come principi autoevidenti della moralità– quelli raccolti da Maritain per buttare giù la Carta dei Diritti Umani, per intenderci – tipo: si tiene fede all’impegno preso, se violi una promessa è una vergogna, se non tieni la parola data sei essere umano da niente, prima le donne e poi i bambini, il capitano non abbandona la sua nave, i politici che prendono in mano la cosa pubblica devono essere migliori degli altri e io cittadino ti eleggo perché sei migliore e più devoto di me alla cosa pubblica e via dicendo. Se lasciassimo che niente ha più senso e niente ha più valore se non l’immediato contingente in cui si perde ogni isola di certezza (le nostre regole morali) nell’oceano di incertezza futura, certo che la nostra società umana diventa la guerra di tutti contro tutti e ci riduciamo peggio degli animali. Ma molto peggio, perché la nostra intelligenza messa in mano a un animale senza morale e sentimenti, è solo un’”arma fine di mondo” e nient’altro.
Persino gli animali conoscono principi autoevidenti di moralità e dignità, mettono la propria vita a repentaglio per un altro essere:
Per i greci la REPUTAZIONE era l’unico al di là di cui preoccuparsi, e questa cosa del giudizio dei posteri non so perché per me è sempre stata una delle chiavi fondamentali per giudicare le azioni –mie e degli altri – e, mi ripeto, il concetto di un mondo dato in prestito dai figli e non regalato dai padri, ricordo di averlo avuto chiaro da sempre; per cui sono sempre più attonita e stupita da chi, in nome del proprio interesse, del proprio sollazzo e mi spiace dirlo in nome della propria pellaccia è pronto letteralmente a salire sui cadaveri altrui.
Certo che la vita è preziosa, che la paura fa brutti scherzi, ma non posso concepire che si possa pensare di salvarsi a discapito dei più deboli, dei bambini, o, ancora più grave, che si venga meno a un impegno, a una responsabilità.
Quel che ho detto in altri post a proposito dei politici vale qui per questo inquietante capitano del Concordia: io non avrei mai scelto di fare il capitano di una nave perché non sono sicura non di non potermene procurare gli skills tecnici, ma perché non sono sicura del mio coraggio.
Che cosa ci facevi tu lì a guidare quella nave? Stavi lì solo per gli onori?
Sono domande che ci facciamo sempre più spesso: che ci fa quello a governarci, che ci fanno quelli a dirigere quelle aziende, che ci fanno quelli ad insegnare (che poi picchiano i bambini), che ci fa quello a operare la gente se non riconosce un fegato da un colon?
Qua non si tratta solo più del sistema marcio e immeritocratico che permette che ci sia la persona sbagliata a ricoprire un certo posto, ma del fatto che ormai è sentire comune che moralità, dignità, amor proprio, rispetto degli altri, rispetto della parola presa, siano stupidi orpelli di un passato a cui, se aderisci, sei un tipo strano e un po’ naïf.
L’ incapacità di rispetto per gli altri che è alla base del comportamento della gente, lo vedi quotidianamente nella maleducazione, si è persa persino memoria di certi formalismi detti buona educazione, che a me danno la sensazione di una casa allegra e piena di luce: uomini che alzavano il cappello davanti alle signore che passavano (Wanda compresa), ragazzi che lasciano il posto agli anziani, cedere il passo davanti alle porte, chiedere scusa, dire grazie.
Non c’è niente di più bello e soave del baciamano di un uomo, niente di più rassicurante per la prosecuzione del genere umano d’un capitano che rischia la vita per mettere in salvo i passeggeri, di un politico che rinuncia a qualcosa di se stesso per dare l’esempio alla gente che lo vota, di qualcuno che non si perdonerebbe mai di non aver mantenuto una promessa, senza scuse e senza l’autoindulgenza dei bambini viziati.