A proposito, un’ultima volta, delle parole della Palombelli e delle conseguenze di quelle parole, adesso c’è chi supporta la sua teoria “ma non avete considerato il contesto, non avete visto tutta la puntata”, intorno al punto per cui nella storia (inventata, come sempre, a Forum) è una “lei” che picchia un “lui”. Sfugge a chi adesso richiama quel contesto, che lo avevamo chiaro da subito che nella puntata si tratta di una donna che picchia un uomo, e stupisce che si possa pensare che l’accusa alle parole della Palombelli nascesse da un equivoco in tal senso.
Sì parlava di una donna che picchiava un uomo, cosa dovrebbe cambiare?
È proprio qui che si svela un pregiudizio, un luogo comune che personalmente associo alla tendenza della nostra epoca di fare di tutto un gadget, uno slogan pubblicitario, una moda. Ci si è interrogata una studentessa di cui ho seguito la tesi di Laurea, parlando di femminicidio, su quali siano i rischi di un termine e quante le probabilità di circoscrivere un problema o addirittura banalizzare – se non giustificare – un reato contro la Legge ma soprattutto contro la morale, contro il diritto di un individuo, circoscrivendo un problema, soprattutto per queste benedette parole e come suonano una volta che diventano un termine il cui senso non si è compreso appieno.
Questo pregiudizio ha fatto sì, secondo me, che per un processo inconscio della Palombelli, sia arrivata ad esprimere quelle parole incredibili sentendosi coerente: “Ehi, ragazze, ma perché mi aggredite, qua è una donna che picchia un uomo, di che parliamo?”
Inutile far notare la freccia semantica tra il riferimento ai sette femminicidi e il caso che si andava ad affrontare per annullare completamente il senso di questo inconscio senso di coerenza , ma ancora più inutile forse fare riferimento al fatto che l’inaccettabilità dell’uso della violenza verso una persona con cui si ha, si vorrebbe, non si ha più e non si accetta, una relazione, non riguarda una sola circostanza possibile. E non ci sono scuse, mai, per quanto esasperante sia qualcuno con cui si condivide un rapporto di qualunque tipo, il ricorso alla violenza riguarda se stessi e il proprio mondo interiore, non l’altro e il suo comportamento.
A me è successo di un caro amico la cui compagna ha fatto male più volte, per gelosia, ma male male, lui mi mandava delle foto scrivendoci sotto “se mi trovano morto sai cos’è successo, questa è la prova di quello che mi ha fatto oggi”. Perennemente pieno di graffi, addirittura di morsi. Non è stata l’unica volta nella mia vita, in cui ho purtroppo avuto diverse amiche con uomini violenti e sono la maggioranza, che mi sia però ritrovata ad assistere a relazioni tossiche in cui la vittima fosse un uomo che subiva violenza da parte di una donna, o di coppie di persone dello stesso sesso. Ho frequentato per molto tempo una coppia di amici apparentemente molto innamorati, uomini, di cui uno dei due tendeva a picchiare il compagno in quel caso non per gelosia ma perché, diceva “era nel suo temperamento, quando si arrabbiava”.
In ognuno di questi casi ho, naturalmente, spinto con ogni consiglio possibile la persona maltrattata a denunciare, cosa che gli uomini non fanno perché la nostra cultura machista li fa vergognare d’andare da un poliziotto o un carabiniere a dire “mia moglie mi picchia”, ma nemmeno riesci a convincerli a liberarsi da un rapporto così tossico perché, e qui è il punto, sempre culturalmente ritengono che una donna violenta in un rapporto sia gestibile, sia solo un po’ pazza, sia da nascondere il fatto che per quanto esasperanti, non risponderebbero mai con le stesse modalità “so che se reagissi le farei molto più male” e pensano che, in quanto fisicamente più forti e padroni di se stessi, sia giusto ritrovarsi con un occhio nero o rischiare di essere uccisi a coltellate mentre dormono.
Saranno esasperanti questi uomini o donne coinvolti in relazioni con una persona dell’altro sesso o dello stesso sesso che è violenta e prepotente nel pretendere amore, attenzioni, d’aver ragione? O ha forse un problema chi pensa che l’altro sia una sua proprietà e può disporne come vuole? E perché in una coppia di uomini o di donne, la questione di un rapporto tossico solitamente non sveglia coscienze, non si trova una definizione anzi si tende solitamente a fare battute omofobe e cattive, come fosse ovvio che ci siano occhi neri e braccia rotte: sono pazzi, non sono normali, è “un classico lesbodramma”, e via così.
Perché, parlando di parole e del loro peso, non allarghiamo il concetto, in un’epoca in cui tentiamo di rendere moda – ma ben venga purché se ne parli come nel caso del femminicidio – la necessaria abolizione di confini e definizioni, e usiamo questo buffo asterisco nelle finali di una lingua, quella italiana, per cui se in un gruppo di cento persone una è uomo, allora si usa il plurale maschile, quindi un’epoca in cui abbiamo capito il pericolo delle definizioni strette e delle ghettizzazioni, non normalizziamo che in nessuna relazione, in nessun caso, è accettabile la violenza con il pretesto dell’amore? Il senso del possesso, del dominio, che portano al femminicidio inteso come non-accettazione di ciò che la donna rappresenta per una cultura machista che inconsciamente o meno invidia tanto i talebani, come ha alla fine sintetizzato la studentessa di cui sopra, è un termine che riguarda il desiderio di uccidere non quella persona e basta, ma ciò che rappresenta, è questo che intende quel termine nella nostra cultura, allora se sono le parole a controllare la nostra logica, troviamo un termine che non sia solo omicidio, delitto, lesioni, per un reato che riguarda un desiderio di controllo e dominio tale verso una persona da ritenersi in diritto di ferirla, maltrattarla, arrivando a toglierla dalla faccia della terra se non fa quello che vuole chi pensa di averne proprietà.
Così equivoci come il meccanismo inconscio per cui la Palombelli si è sentita tranquilla ad usare quelle espressioni perché, ripeto, inconsciamente, pensava di non stare toccando un argomento per cui sa bene che sarebbe stata linciata, non accadrebbero più.