L’ultima Lettera a Babbo Natale

Nostro padre era andato via, nostra madre in quel periodo dormiva sempre.

Era a un certo punto caduta in un sonno letargico, aveva detto “Ho un po’ sonno.” Si era messa la camicia da notte rosa a fiori ricamati, i calzettoni di lana, si era infilata sotto il piumino e puff.

Era sparita.

Ogni tanto la cercavo infilandomi tra le pieghe del piumino e Lolli, mia sorella, aspettava sul bordo del letto con sguardo curioso e preoccupato.

“Allora?” chiedeva.

Io tornavo dalla nuotata in un mondo di piume d’oca – oltre al piumino c’era da considerare la trapunta azzurro cielo lucido e un numero imprecisato di cuscini – scuotevo la testa e rispondevo: “Ancora niente.”

Ma poi sorridevo e la rassicuravo:

“Vedrai, un giorno si sveglierà, sta solo recuperando circa un milione di sogni.”

D’altronde nostra madre prima di partire per il suo lungo sonno lo aveva detto spesso che da quando aveva incontrato nostro padre aveva dovuto mettere da parte un milione di sogni.

Ecco che adesso poteva recuperarli tutti.

È sempre meglio mettersi in pari, quando ci si rende conto d’aver lasciato del lavoro in sospeso e i sogni, si sa, sono una cosa seria.

C’era un problema che però mi angosciava sul serio. Avevo tredici anni, mia sorella nove, e si stava avvicinando a grandi passi il Natale.

È opportuno spiegare che, ormai quattro anni prima, esattamente alla stessa età di Lolli, ho scoperto una cosa davvero tremenda. Una di quelle che si ha paura persino a dire.

Andavamo a letto presto, la sera di Natale, perché l’attesa era sfibrante e dormire prima possibile fa sì che la mattina arrivi velocemente.

Per far prima, la mattina della scoperta dei regali lasciati da Babbo Natale, mia sorella ed io eravamo perfettamente organizzate, poggiavamo i nostri vestiti sulla sedia in ordine di vestizione: mutandine, calze, jeans, maglione.

Mia madre non ci ha mai permesso di andare sotto l’albero in pigiama, cosa da cui ho compreso quanto fasulle siano certe immagini stucchevoli che circolano di bambini in camicia da notte sotto l’albero a scartare regali.

È un errore davvero grossolano.

Le madri non consentono ai figli di frequentare l’albero di Natale come si fosse scappati dal letto. Mia madre ha sempre preteso che i pigiami restassero dentro il letto. Colazione, si fa vestiti, è ovvio, è la Legge.

Da quando sei fuori dalla zona del sonno, niente pigiami. È così che ti insegna una madre come si deve, il pigiama appartiene al letto e all’universo della notte, non al mondo del giorno.

Ecco perché non ci ho messo molto a capire cosa fosse successo a nostra madre: era rimasta imprigionata nell’universo della notte e dei sogni, perché adesso viveva perennemente in pigiama.

Comunque, quel Natale lì, il Natale della mia grande scoperta, dopo il solito rituale: lasciare latte e biscotti sotto l’albero dove giacevano alcuni piccoli regali della famiglia e l’enorme busta di juta per i regali di Babbo Natale, disporre in ordine i vestiti sulle sedie, mettersi giù e dormire, mi ritrovai sveglia.

Ripassavo mentalmente: ho lasciato latte e biscotti, lavato i denti, messo il pigiama, e dunque adesso dovrei dormire. Ma un anello della catena non stava funzionando.

Non dormivo.

Ero troppo nervosa.

Quell’anno si era chiesto a Babbo Natale un regalo davvero speciale, un salotto nuovo per la casetta delle bambole. Lo avevamo visto su una rivista e Lolli, che allora aveva cinque anni, aveva ritagliato la foto: divani che parevano veri di velluto blu, un tavolino come fosse di vetro, una credenza con dei veri piattini dentro.

Mio padre ci aveva mandato a dormire cercando di persuaderci:

“Bambine, il salotto non ci sarà. Non è tra i regali della fabbrica di Babbo Natale, dovreste saperlo. Nella fabbrica di Babbo Natale ci sono solo bambole, macchinine e pupazzi.”

Ma io non potevo crederci.

A parte che Babbo Natale sapeva benissimo che odiavo bambole e pupazzi, ma la lettera che io e Lolli avevamo mandato era la perfezione. Toccante, gentile.

“Caro Babbo Natale,

come stai? Come stanno le tue renne? Passata bene l’estate? Dunque, noi quest’anno abbiamo un regalo speciale da chiederti. Uno solo per tutte e due.

Conta che quest’anno siamo state buonissime: Lolli quest’estate ha salvato un gattino, io ho sempre diviso la mia merenda con la mia compagna di classe Rita. Non abbiamo detto bugie e siamo sempre state coscienziose e ubbidienti.

Perciò è dal profondo del cuore che ti chiediamo il regalo di cui ti alleghiamo foto.

Noi ti vogliamo molto bene, Babbo, come siamo certi di te. Lilla e Lolli”.

Ammetto, c’è della furbizia in una lettera del genere, c’era una piccola bugia dato che di fatto Rita la merenda me la rubava, e anche la foto allegata su cui mia sorella aveva scritto con la sua grafia incerta “È bellissima!!!!” poteva suonare un po’ ricattatoria, ma avendo limitato a uno e uno solo il regalo richiesto nutrivamo molte speranze.

Ma il dubbio insinuato da mio padre mi tormentava, così non riuscivo a dormire.

Ad un certo punto il disfattista di casa si era affacciato, io avevo chiuso prontamente gli occhi e simulato un respiro pesante.

“Dormono.” gli sentii dire.

Avertii qualcosa di misterioso nel tono di mio padre e nel:

“Bene.” con cui rispose mia madre.

Non potevo trattenere la curiosità così, facendo piano, mi sono alzata.

Lolli dormiva del sonno degli innocenti, potevo vedere tutti i suoi sogni proiettati sulle pareti e sul soffitto. Angeli, cuccioli, braccia che stringono, un salottino azzurro per le bambole.

Mi sono avvicinata alla porta socchiusa e ho guardato.

Ho visto.

Mio padre aiutava mia madre a tirare giù uno scatolone che era sull’ultimo ripiano dello scaffale di metallo, nello sgabuzzino.

Lo scatolone era aperto e all’interno vidi quelli che con tutta evidenza erano dei regali. Impacchettati con carta natalizia, grandi fiocchi rossi o dorati. A ogni pacchetto era appeso un cartellino con su il nome.

“Però potevamo prenderglielo il salotto. Ci resteranno male.” disse mia madre.

“Ma stai scherzando, è quasi metà del mio stipendio, quella stronzata.” rispose mio padre.

E si allontanarono verso il soggiorno di casa nostra.

Io, di soppiatto, li seguii.

Il cuore in gola, un senso di vuoto e incredulità mentre li intravedevo mettere quei regali nel sacco di Babbo Natale, silenziosi come ladri.

Davvero non capivo. Cosa stava succedendo?

Ho dimenticato di dire che qualche anno prima di questo tragico evento la mia famiglia abitava in un piccolo paesino vicino ad un bosco.

Lì, ogni anno che io ricordi della mia vita, era venuto Babbo Natale in persona.

Veniva con tanto di renne, abito e barba d’ordinanza e faceva “oOOhh – hooOO”.

Tutto regolare.

Ci incontrava, noi bambini, beveva il suo latte, mangiava i suoi biscotti e poi ci consegnava i regali leggendo i cartellini con il nome. Come è normale, insomma.

Quando mio padre ci aveva portato nella Città, mi era stato spiegato che Babbo Natale lì veniva a notte fonda, non era più possibile incontrarlo e comunque compiuti i cinque anni di età era ormai proibito vederlo. Non gli andava, insomma, una questione di privacy.

In fondo anche mia nonna ultimamente diceva spesso:

“Non mi piace più farmi vedere da certa gente da quando sono così invecchiata.”

Il discorso non faceva una piega, quindi io e Lolli – che non ricordava quel tempo in cui avevamo incontrato Babbo di persona – ci eravamo abituate rapidamente al nuovo rituale.

Si va a dormire, quando tu dormi lui viene, lascia i regali e la mattina corri a scartarli.

Restai lì seduta sul pavimento della mia cameretta cercando di capire. Ma allora Babbo Natale non veniva a casa nostra? Era questa la ragione per cui mia madre e mio padre stavano mettendo i regali sotto l’albero di nascosto?

O forse li spediva, con quello scatolone che avevo visto?

No. Papà aveva parlato di stipendio. Di costi. La Verità era evidente.

Li compravano loro.

Pensai, mi sforzai. Rividi anche il volto di alcune mie compagne di classe che mi avevano preso in giro:

“Credi a Babbo Natale? Che idiota, ma Babbo Natale non esiste!”

Così, pensa che ti ripensa, ho capito.

Ho compreso la verità, la ragione per cui i miei genitori fingevano che fosse stato lui a portare i regali, la ragione per cui la mattina trovavamo il latte bevuto, i biscotti mangiati, e quel biglietto con su scritto “grazie, bambine”, con una grafia così simile a quella di mia madre. Come avevo fatto a non accorgermene prima?

La mattina andai ad aprire i regali facendo finta di niente. Ero talmente impegnata a dissimulare che non ho nemmeno vissuto la delusione del salotto per la casa di bambole che non c’era.

Lolli mi guardò avvilita, dopo che avevamo scartato il pacco della Bambola che piscia, due puzzle e un orsacchiotto di peluche azzurro.

A me facevano schifo i pupazzi ma a mia sorella piacevano, quindi glielo passai con un gesto teatrale, come a sottolineare quale meraviglioso regalo ci avesse mandato Babbo Natale.

Le sorrisi tentando di non lasciar trapelare la mia reale delusione, l’aver scoperto una Verità ben più grave che avevo potuto tenerle nascosta per tutti quegli anni.

Ma adesso che nostro padre non c’era e mamma era partita per recuperare il suo milione di sogni, come potevo nascondere ancora a Lolli la verità?

Non ci sarebbero stati loro a comprare i regali, nasconderli, metterli sotto l’albero, scrivere il bigliettino e io ero troppo piccola e squattrinata per mettere in piedi la solita pantomima.

Era purtroppo arrivato il momento che anche lei sapesse come stavano le cose. In fondo aveva la stessa età che avevo avuto io quando avevo capito.

Nove anni. Un’età sufficiente per reggere i duri colpi della vita.

Così decisi di dirle la verità.

“Lolli. Devo dirti una cosa” esordii, a colazione, mentre lei buttava giù una bozza della nostra letterina annuale a Babbo Natale.

“Quest’anno potremmo provare a metterla triste…” diceva lei: “Diciamo che nostro padre è andato via…qualcosa di melodrammatico, insomma. ”

“Devo dirti una cosa, ascoltami”.

“Potrei dire che tu stai male. O che io sto male. Diciamo che siamo tutte e due zoppe!”

“Lolli! Non si dicono le bugie, basta! A questo proposito…”

Il cuore mi scoppiava, mi dispiaceva tantissimo doverle dire la Verità. A volte ci si illude che una cosa, finché non la si dice, non sia ancora verità.

Ma dovevo.

Era giusto che anche lei conoscesse la verità che avevo compreso anni prima.

Le presi la mano, la guardai negli occhi, e mi presi di coraggio:

“Lolli. Babbo Natale è morto”

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