un sabato italiano (ovvero guarda me, no guarda me)

Inevitabilmente in questi giorni stiamo tutti pensando a una parola in particolare:

VIOLENZA.

Quel che è successo sabato 15 ottobre scorso a Roma – diciamo pure che non si sono scambiati margherite nemmeno nel resto del mondo – adesso è pappa per dibattiti, giornalisti, noi gente che si accoccola nella rete, non-luogo di oklocrazia e senso di onnipotenza, e qualcosa mi dice che presto o tardi sarà anche nutrimento per il cinema o una fiction in due puntate dal titolo “L’estintore”.

Caso ha voluto che un piccolo intervento niente-di-che solo scocciante che dovevo fare il venerdì 14 mi sia stato spostato guarda un po’ proprio il 15 mattina, che è diventato il 15 pomeriggio. (diffidare degli appuntamenti in clinica pur privata, le 11 diventano le 15 come niente).

Dunque, nel film dal punto di vista di Anne Riitta: tagli alternati di montaggio tra lei nella sala d’aspetto d’un day hospital che sfoglia riviste e ondeggia nervosa il piedino, mentre da porte verdoline chiaro spunta un’infermiera vestita di bianco o un altro vestito di verde con la mascherina tirata giù, e intanto in una piazza rumorosa passano prima un po’ di persone tutte colorate con le facce dipinte trasportanti enormi girasoli finti, poi in crescendo mentre lei dalla sala d’aspetto passa in una stanza tutta bianca dove le danno camice e scarpine usa-e-getta, in piazza danno fuoco alle macchine, sfrangono banche e appunto roteano celebri estintori nell’aria.

foto ufficiale del pelliccia che lancia l'estintore

Bella foto, devo dire.

Torno verso casa un pochino dolorante e con Lorenzo in macchina ci diciamo “Cosa sarà successo intanto? Speriamo ci sia stata gente…”

Suona ironico.

Le strade verso piazza Verbano erano deserte e silenziose, il clima era un tantinello apocalittico: c’era troppo silenzio, ogni tanto un elicottero fendeva l’aria statica.

Sempre nel montaggio alternato, a pochi chilometri si consumava la guerriglia urbana.

Solo arrivando a casa e vedendo le immagini su Sky tg24 abbiamo scoperto la verità. E’ come svegliarsi da un sonno troppo lungo e coi tappi nelle orecchie.

Abbiamo cominciato con l’appurare quanti dei nostri amici potessero essere andati in piazza e confortarti che stessero tutti bene.

Poi ho visto, sempre dolorante e costretta a riposarmi, le dirette tv.

Mi hanno colpito:

i ragazzi in piazza, in un programma su la 7, che ripetevano, piccati – molto piccati – che la stampa, i media, si stavano solo preoccupando di quei quattro facinorosi che avevano messo a ferro e fuoco la città e nessuno si stava preoccupando di dire quanta gente felice e contenta fosse scesa in piazza con le facce dipinte e i grandi girasoli.

Io facevo zapping e vedevo che ogni singolo telegiornale iniziava il suo servizio così: “all’inizio era una bellissima manifestazione, migliaia di persone pacifiche — immagini gente colorata/bambini/striscioni —- poi sono arrivati questi chiamiamoli black bloc—”

Poi in piazza ripetevano che il nemico, quello contro cui era organizzata davvero la manifestazione mondiale, era “il sistema economico/le banche/le borse” e nessuno ne parlava.

Facevo zapping e pullulava di approfondimenti su Wall Street, le banche, a chi vanno le colpe della crisi,su quanto non sia giusto che stiamo pagando tutti le conseguenze della crisi.

Dunque non capivo l’aprioristico acidume perseguitato da parte di quei ragazzi.

Stavano preveggendo che sarebbe accaduto quel di cui accusavano “loro” , “il mondo” ? Non capivo.

Non capivo perchè stessero usando quello spazio per parlare contro qualcuno non per qualcosa.

Anche nei giorni successivi ho letto e visto in tv discorsi variamente generici sulla violenza e sulla risposta non-violenta degli indignati. Non riuscendo però a capire quale fosse la proposta.

In un altro collegamento durante un sit-in mi ha colpito che ci fossero persone che leggevano comunicati in cui definivano violenza il sistema che mette al centro i soldi, l’economia e non l’uomo e poi proponevano assemblee che si dessero modalità da loro definite “nuove”, ma in realtà già applicate – avevano provato a farlo – negli anni ’70. (Vale anche il punto di vista della minoranza, si deve trovare una terza proposta che sia terza e non sintesi di due, etc.)

Dunque quello che mi manca, a livello di narrazione, è il turning point: cioè cosa si propone, cosa succede adesso, cosa dovrebbe cambiare la storia?

Ci sono mille cose che potrei dire a proposito del mio pensiero personale sul sistema economico mondiale, la controproposta di mettere al centro l’uomo e il fallimento in ogni ideologia – occidentale soprattutto – per il solo fatto di non aver mai considerato come l’essere umano (ogni essere umano, soprattutto occidentale ) sia fatto in realtà.

Ma non è questo che mi interessa esprimere. (oppure ci scrivo un saggio, non occuperebbe lo spazio di un post su un blog).

Quel che mi ha fatto riflettere e che occupa lo spazio di un post è la sensazione che poco si considerino il senso effettivo della parola violenza e dell’espressione “non violenza”.

Un po’ di rilettura di Gandhi non guasterebbe, ma non gli aforismi che si trovano googlando qua e là. Le cose che ha scritto, l’esempio della sua vita ma soprattutto cosa è accaduto davvero quando lui, inevitabilmente leader, è stato ucciso e quindi, come si dice, “ha lasciato questo mondo”.

Soprattutto quando chiariva che “non-violenza” non significava nella sua analisi “porgi l’altra guancia” né “stai seduto e non fare niente”.

Mi pare che se da una parte Er Pelliccia – non voglio che nessuno mi spieghi il perché del soprannome, ho paura a saperlo – si sia giustificato dicendo di essersi lasciato trascinare dagli eventi, che suona comunque meglio di volevo spegnere un incendio, si rischi che ognuno, abbarbicato violentemente alla convinzione di essere portatore della causa più nobile e importante finisca per lasciarsi trascinare dai luoghi comuni, che non sappia comprendere l’ordine delle priorità, osservare prima di parlare.

Quella prima diretta da piazza S.Giovanni e i ragazzi che dicevano “State tutti a parlà di questi quattro delinquenti e di noi non parlate”, reprimendo uno sdegno interiore che diventava aggressivissimo con il giornalista in piazza, (non dimenticherò facilmente quei “Eh no, tu lo devi dire” oppure “Eh no, tu non devi dire che…” come fosse un loro impiegato e appunto senza sentore di quel che stesse accadendo su tutte le reti televisive, nonché in quello stesso programma e quindi facendoli apparire un po’ matti) mi hanno ricordato lo stesso sconcerto che ho provato quando nel 2005 c’è stato l’attentato a Sharm El Sheikh e morirono quasi 100 persone tra gli Hotel coinvolti e il Bazar. I giornalisti aspettavano all’aeroporto gli italiani salvi e rimpatriati velocemente che erano ospiti di quegli Hotel saltati per aria, e un paio di questi, con una signora abbronzata in particolare, una volta messole il microfono sotto il naso hanno detto cose tipo: “No, lei non può immaginare..non può immaginare dove ci hanno messo: noi avevamo l’Hotel cinque stelle e ci hanno spostato in un albergo fatiscente, c’erano pure gli scarafaggi, schifezze da mangiare..” . Giuro.

Ho pensato: sicuramente non le hanno detto che è morta della gente, non avrà capito quanto sia stata grave. Invece intorno a loro ne parlavano, lo sapevano benissimo.

Ma forse la verità è che la più grande violenza della nostra società occidentale e opulenta, è che anche chi pensa di esserne il correttivo non riesce a prescindere dal condizionamento: “Il mio problema è più grave del tuo / nessuno mi ascolta”. Quel che ha nutrito il sistema in cui viviamo è stato probabilmente più di ogni altra cosa il foraggiamento dell’ego: personale, di gruppo, di movimento, di partito, di nazione.

Io – quello; noi – loro.

La forma di violenza da cui difficilmente e non in una generazione potremo sfuggire.

(E infatti non una riga sul fatto che IO avessi un piccolo intervento in day hospital)