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“Un film di” e quando il possessivo conviene a tutti tranne che al Regista

Mi sono ritrovata a scrivere, per una cosa che devo pubblicare, parole come queste: “C’è una cosa che accomuna altri ruoli in cui mi sono trovata nella mia vita, da donna, da mezza straniera, da bionda e poi da Regista.

Un certo pregiudizio per cui hai solo doveri, subisci invidia non manifesta (anzi possibilmente sfottò) e nessun diritto. Mai l’avrei pensato quando ho cominciato a capire che era il mio mestiere, la mia propensione, il narrare per immagini, per me con l’idea principale di raccontare quello che altrimenti non avrebbe voce, possibilmente ciò che conoscevo meglio già allora, il pregiudizio.

Non avrei pensato di trovarmi a discutere con chi ti dice che “quel che conta è la sceneggiatura, la visione è la sua, il Regista mette s o l o in scena” come fosse una passeggiata, ma certo che altro devi fare, devi fare delle riprese e mostrare quel che succede… se replichi con le parole di Suso Cecchi d’Amico sulla sceneggiatura e il ruolo di chi scrive (ruolo che conosco benissimo perché ho scritto e scrivo per colleghi e so bene di essere seme ma che la gestazione e il parto saranno del Regista e mai mi permetterei di mettere “visioni” nella morfologia di uno script) e cioè che “lo sceneggiatore scrive per un Regista, la visione è sua, spesso lo sceneggiatore si ritrova sullo schermo una cosa totalmente diversa da ciò che aveva immaginato ma è giusto così perché il film è del Regista”, ed è arrivata a dire, in una intervista in un libro raccolta degli anni ‘90 curata dal Premio Solinas che “un giorno la sceneggiatura sparirà e resteranno i film” dicendo testualmente: “lo sceneggiatore è una figura destinata a scomparire perché insiste a dire con parole ciò che SPETTA ad altri dire con l’immagine, un mestiere insensato..” allora rischi il livore e l’attacco personale, e bizzarre teorie confuse e filosofeggianti, anche perché chi scrive e basta ha più tempo e serenità, è preso meno calci e quindi ha più forza di polemizzare; peggio mi sento se cito Sydney Lumet: “Il Cinema non è una faccenda democratica, può esserci una sola visione ed è quella del Regista”, perché citare dei Grandi mette in confusione

Ma il peggio in assoluto deriva dalle confusioni lessicali intorno alla definizione “un film di” che in italiano non suona esattamente come “a film by”, che è più un “fatto da”, invece quel pronome possessivo all’italiana manda ai matti chi hai intorno. Nel bene e nel male, da quello sul set che ti dice che il Regista non andrebbe pagato “perché alla fine il film è suo” all’incredibile produttore che mi dice “io non farò mai firmare un Regista “un film di” ma al più “diretto da”. Come se ci fosse un gne gne di appartenenza (i diritti sono i suoi, chi ci guadagna come ci perde economicamente è lui e chi non lo riconosce..) e non una direzione di cui sei responsabile.


È un mestiere questo che ti mette nella stessa situazione della donna mezza straniera bionda: non devi far altro che giustificarti.

Quando poi di fatto la gravidanza d’elefante, per anni, la porti tu, la pazienza per trovare come, tramite chi, trasmettere, difendere, migliorare la sceneggiatura, saper comunicare la visione, come lo immagini e come sarà e – come dicevo giorni fa riguardo i miei studenti – vedi subito chi ha questa propensione, un po’ dannazione un po’carattere per cui vivi inseguito dai fantasmi del film passando per docce scozzesi incredibili: si fa – non si fa, slitta, salta, no si fa, e intanto sei un Direttore d’Orchestra che gestisce visione vs realtà e trova soluzioni, comunica, rassicura, tiene duro contro le avversità, poi finisce – se si fa, attraverso mesi a gestire caratteri, vizi, capricci e paturnie sempre saldo all’Idea come un naufrago alla zattera, poi esce … o non esce? Sì esce, i Festival – se non ti prendono tieni duro, il film ormai è tuo (pronome detto timidamente) figlio e certo che ci stai male ma tieni duro.

Esce, ti giudicano, se è bello è merito del lavoro corale se è brutto è colpa tua, tu fai pippa, è così che devi fare perché devi stare zitto e “grato e sorridente” mentre discuti con gente che da minuto uno della filiera da cui inizia il percorso, nel 90% dei casi non ha la minima idea del Cinema ma devi sorridere e fare pippa pensando che è parte del gioco e trovare mezzi di comunicazione adeguati.”

Scrivevo più o meno questo ieri per questa pubblicazione.


Poi ecco, a volte accade questo. https://www.dire.it/02-05-2020/455036-egitto-muore-in-carcere-il-regista-del-video-ironico-su-al-sisi/


Quello di cui parli è talmente importante che a qualcuno dà talmente fastidio, in un mondo non libero, che per quello che hai mostrato, che hai raccontato, muori.
Anni fa Van Gogh.
Adesso questo ragazzo, ventidue anni, età di molti dei miei studenti tra cui vedo subito, dallo sguardo e dal carattere “sì tu puoi fare il Regista, tu lo Sceneggiatore” e non c’è un meglio o un peggio ma una questione legata a quanto talento visivo hai, ma anche a quanto larghe hai le spalle per l’assunzione di responsabilità.


Per la prima linea e non la prima fila.
Perché poi quando le cose si mettono gravi, sono tutti d’accordo su “di chi” sia il film.

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(Caro Franceschini ti spiego perché devi combattere perché Cinema e Teatri riaprano quando apriranno le chiese) Eroi bistrattati, sacerdoti perseguitati, corpi martoriati, di sicuro dimenticati

Sto veramente male per il mio settore. Quando ero adolescente e sognavo di lavorare nel Cinema, nel Teatro, insomma nel comunicare Bellezza con la narrazione per immagini e parole, creare catartiche eterotopie di evasione, fosse per riflettere, avere il pretesto per piangere per un dolore, fosse per ridere e dimenticare il dolore senza distruggersi il fegato, per dare al mondo quel che un cinema o un teatro hanno dato a me letteralmente salvandomi la vita, mai avrei pensato – non fino ad un famoso giorno in cui reggevo l’ombrello ad un attore su un famoso set – che il mondo potesse essere tanto cieco ed ingrato verso questo settore.


Ci sono entrata, studiando molto (non ho mai smesso) partendo dalla gavetta, ma dovendo costantemente difenderlo dai barbari.


Ho dovuto sentir dire che con la Cultura non si mangia, che noi siamo “inutili”, che siamo un settore “superfluo” fino ai “ma con la tua bella Laurea potresti trovare un lavoro” detto pure dopo aver fatto quattro film da Regista, firmato sceneggiature per colleghi, firmato spettacoli andati in turnée in tutta Italia ma soprattutto aver pagato tantissime tasse, perché del nostro settore si ricordano solo per le percentuali dei nostri guadagni da dare allo Stato.
Contando che non abbiamo alcun benefit, noi partite IVA delle “creazioni artistiche”, e non avremo pensione.


Ma paghiamo le vostre.


Ora, al di là del trattamento come sempre demmerda di (anche) questo governo (anche) in questa emergenza, in cui parlano del riaprire teatri e discoteche “come le sale da ballo e le discoteche quindi luoghi di divertimento” a babbo morto, dimostrando la (solita) ignoranza abissale nel non comprendere che teatri e cinema NON sono “luoghi di divertimento” ma per tutti voi e anche loro, grandiose teste di k, corrispondono da almeno 2500 anni a templi e chiese perché è lì dentro, luoghi di rituale collettivo, che le nostre anime e menti si nutrono dei principii morali, persino in un film di Checco Zalone ciò avviene, principii grazie ai quali evitiamo di diventare dei totali barbari con la clava; la catarsi e l’evasione in un luogo deputato NON SONO “lo stesso che vedere una serie-un film sul divano di casa” (e lo dico da amante delle serie ma appunto è come la differenza tra pregare da solo a casa e pregare con gli altri in parrocchia/tempio etc, sono rituali di cui l’umano necessita) AL DI LÀ DI QUESTO che capisco ci voglia un filo di cultura e preparazione in più di chi vive per cucirsi al sedere tutt’altre poltrone – e chi lavora nel mio settore non porta abbastanza elettori, perché questo siamo noi idioti che andiamo dietro questo o quel partito: massa numerica da usare come carta igienica – ecco, ciò che mi fa male, malissimo, in questi giorni è vedere: film di colleghi costretti allo streaming, colleghi con film bloccati, teatri chiusi, spettacoli saltati. Per quelli che normalmente ci rispondono, e trovano la mano per mettere firme che fanno la differenza tra la vita e la morte dei nostri progetti dopo mesi, la situazione attuale è pretesto per perdere ulteriore tempo (a loro gli stipendi arrivano ma c’hanno da montare il Lego del figlio o il nipote), colleghi di varia professione che mettono annunci tipo vi faccio lezione di recitazione online, vi faccio lezione di scrittura online, vi sistemo i temi dei vostri figli.
Gente grande e con una carriera, che sta tentando di capire come mettere insieme pranzo e cena dopo anni di studi, gavetta, lavoro, risultati, che sta tentando di inventarsi come sopravvivere.


Ma Cristo Santo quando la smetterete di trattarci come gente che non merita di essere seppellita in terra consacrata, considerare le attrici alla stregua di prostitute e noi creatori di mondi come gente che tanto se diverte e deve esprimersi?
In un’era come questa siamo i vostri psicologi a buon prezzo, i vostri animatori e i vostri sacerdoti, volete avere un minimo di cura e rispetto per le centinaia di migliaia di lavoratori che compone il nostro settore?


E scusate se per una volta parlo degli artisti, visto che quando si parla dell’elettricista e del macchinista allora sì, ok, pronti a dire che sono lavoratori come un operaio Fiat e allora sì, certo…
Ma tesori de zia, chi crea, scrive, dirige, fotografa, fa scene e costumi e gli attori, gli at-to-ri, sono lavoratori, siamo lavoratori che spesso è il primo motore grazie al quale un lavoro esiste e se voi avete ancora dei rituali in cui alleviare le vostre complicate vite.


Questo costante umiliarci e bistrattarci da parte della politica quando poi, Ministri e Presidenti sono i primi a correre scodinzolanti sui carpet e alle prime, i primi ad accaparrarsi i meriti per i Premi dati “all’Italia” e io ho sempre voglia di urlare “non all’Italia, demente, a lui! a lei! che si è fatto/a il cosiddetto per anni tra umiliazioni, attese, pazienza, fatica e angoscia e probabilmente a questo momento ci è arrivato con l’esaurimento nervoso, ma che c’entri tu e che c’entra l’Italia!” ché quasi sempre l’Italia e tu classe politica di turno avete tentato di sabotarla, quell’impresa, e se non ci fosse stato un gruppo di pazzi determinati a farla non avrebbe visto la luce e tu a mettere lo smoking e importunare le attrici.


Dunque io in questa pandemia che forse ci siamo veramente meritati e avremmo meritato l’estinzione ma questo virus non è mai stato il caso (e lo sapevano) la cosa per cui sto peggio è l’ennesima conferma della (solita) indifferenza per questa salvifica, protettiva religio che chiamo “il mio settore”, la pena per i colleghi e la pena del confermarmi che niente, nemmeno l’Apocalisse fa capire agli ottusi ciò che, nel mondo umano, davvero conta e andrebbe protetto. Almeno rispettato.

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“Io che non ho figli non posso parlare”

Quando una delle mie nipoti era piccola siamo andate a vedere “Dinosauri”, mia nipote è sempre stata particolarmente intelligente e curiosa, sopra la media (poi si è anche scoperto perché) e faceva domande scomode. Uscite da quel film era molto pensierosa e ad un certo punto mi ha chiesto: “Ma perché il protagonista ha voluto che il branco aspettasse i dinosauri vecchi e lenti mentre gli altri non volevano?” io ho risposto: “Ma perchè non è giusto, amore, lasciare i più deboli indietro, la civiltà in cui viviamo ha raggiunto il principio morale per cui non si lasciano indietro i più deboli”. Lì è entrata in gioco la sua intelligenza, lo dico non da zia fiera perché appunto ci sono ragioni specifiche per cui lei sia così, infatti è andata oltre la domanda, magari normale per una bambina di sette anni, e ha fatto un’associazione di idee che mi ha spiazzato.

“Ma se abbiamo visto quel documentario sugli elefanti che se ne vanno da una parte a morire per non rompere le scatole al branco, allora quei vecchi elefanti hanno torto?”

“No, è una loro scelta, sai…”

“Perché?”

“Perché rallentano il branco”.

Mi ha guardato in silenzio con gli occhi profondissimi che ha e ha detto:

“Non capisco.”

“Si fa, di sostenere i vecchi perché un giorno lo saremo anche noi.”

“Quindi è una cosa egoista.”

“Come egoista?”

“Perché pensiamo comunque a noi”.

Come spesso accade mi ha lasciato senza molte parole.

“Comunque tu come vuoi fare? Io farò come gli elefanti.”ha detto.

“Sì anche io farei così, per non disturbare” ho risposto sinceramente.

“E quindi?”

Giuro che è una reale conversazione fatta davanti ad un panino e delle patatine. La cito spesso in realtà riguardo la mente logica di mia nipote.

La verità vera è che vengo da una famiglia in cui ci si è sempre comportati come gli elefanti pur avendo per tutta la vita difeso i più deboli. Quando i deboli siamo noi cerchiamo di non rompere le scatole.

È personale.

La verità vera generale è che le nostre civiltà si sono evolute moralmente con l’idea di aver cura dei più deboli, sicuramente in gran parte probabilmente per proiezione, in quella forma egoismo di cui parlava mia nipote, togliendo la circostanza personale dei nostri diretti parenti e quindi la componente affettiva, si fa un po’ come premio per una vita di lavoro, un po’ come ringraziamento e risarcimento nel momento del passaggio generazionale.

Mi soffermo su questo ultimo concetto.

Ogni specie animale che viva in branco, tende ad avere il comportamento degli elefanti, alcune specie di primati tengono con sé gli esemplari anziani e se ne occupano, ma di sicuro ogni specie su questa Terra ha un obiettivo principale: crescete e moltiplicatevi. L’istinto naturale, quello – oltretutto – per cui noi siamo passati dalle caverne ad andare sulla Luna ed avere il telefonino, è basato sul principio della staffetta generazionale.

La generazione successiva è quella che conta, una famiglia funzionale, infatti, secondo la moderna psicologia, è quella che antepone bisogni, poi progetti di vita dei figli ai propri, una volta diventati genitori si abdica al primato delle esigenze, a meno che non si sia genitori narcisisti.

L’adagio per cui “si fa tutto per i figli” prevale persino in chi figli non ne ha, quando si tratta di adulti sani infatti si sa e si agisce sulla base di questo principio di appartenenza ampio e assoluto del genere umano e la sua Storia.

Noi viviamo in una società in cui questo principio viene sempre più tradito e violato. Non siamo una società per giovani da quando ero giovane io e sono felice di riconoscermi la coerenza per cui mi incazzavo allora (che potevo essere considerata di parte) quanto mi incazzo oggi per la disfunzionalità di una società in cui ci sono generazioni dal culo di pietra: rubano il lavoro ai giovani non schiodando da certe posizioni soprattutto di potere, se ne sbattono del mondo che lasciano a chi viene deridendo le istanze di giovani che chiedono di fare qualcosa per il futuro del pianeta che in cent’anni abbiamo massacrato (sentito con le mie orecchie: “e che mi frega che tra trent’anni non ci sta più acqua, tanto io so’morto”).

Ma va bene, nonostante abbiamo avuto generazioni egoiste e disfunzionali che dei loro nipoti se ne sbattono, noi restiamo quella società che non lascia indietro al punto di sacrificare i giovani (ancora una volta) per i vecchi, in questa situazione del Covid19.

Perché di questo si tratta al di là di ipocrisie e ridicoli concetti masticati da genitori quarantenni ipocondriaci che hanno paura per se stessi e fingono di farlo per i loro bambini.

L’informazione è chiara è incontrovertibile: ai bambini questo Virus non fa nulla, per i giovani è molto ma molto ma molto più probabile che muoiano per un incidente o una tegola in testa, la percentuale di chi è stato o sta molto male è tale che sappiamo bene, dato che abbiamo tutti avuto vent’anni, il rischio non varrebbe i domiciliari, senza una vita, amici e respirare l’aria. Quelli con malattia pregressa rischiano per qualunque infezione e può valere, persino per un giovane malato, il suddetto principio.

Bambini e giovani stanno sacrificandosi per i vecchi, e non gli è stato chiesto, come in altri Paesi, digressione necessaria: NON è vero che ovunque sia stato applicato il “modello Italia” come da questo articolo, https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/modello-italia-coronavirus/

lo è stato solo nei Paesi con il nostro problema di inadeguatezza iniziale del servizio sanitario nazionale, dunque non è stato “chiesto” a bambini e giovani di tapparsi in casa come sacrificio umano per coprire le magagne di un sistema impreparato ma soprattutto per “salvare gli anziani e i deboli”.

Gli è stato imposto.

Gli è stato imposto chiedendo loro di fermarsi per non lasciare indietro e lo stanno facendo.

Avendo io studenti molto giovani che seguo con le lezioni da remoto, vedo che lo stanno facendo anche con grande spirito di sopportazione e generosità, seppur consapevoli che non sono loro quelli in pericolo.

Questo andrebbe lodato perché noi, mi ci metto pure io che non sono certo vecchia ma nemmeno giovane, si è “giovani” fino a 35 anni e dopo si è uomini, o donne che devono cominciare a far bilanci e prepararsi al fatto che dai 40, 50 cominciamo progressivamente ad essere ospiti in un mondo che ci dovrebbe aver dato le nostre chanches e che sta passando ai figli, chi viene dopo.

Siamo ospiti in un mondo loro, tanto che non esisterebbe il principio di emergenza per cui si salvano “prima le donne e i bambini” dove per donne si intendono le madri e chi può ancora esserlo, perché la metafora del nostro mondo dovrebbe essere quella sequenza di “Titanic” in cui i vecchietti si stringono nel letto mentre la nuova generazione tenta di salvarsi per creare un futuro.

Loro, i bambini e i giovani si sacrificano con un sacrificio che i quarantenni e oltre, soprattutto i sessanta/settantenni si ostinano a definire “risibile, non tanto tragico, puoi salvare il mondo stando in poltrona mentre un secolo fa andavano in guerra”, quest’ultimo un paragone agghiacciante costantemente e impropriamente utilizzato anche dai nostri politici: fosse una guerra si dovrebbero prevedere e accettare inevitabili perdite e allora avremmo dovuto dircelo da subito e lasciare crepare la gente senza tutto ‘sto casino.

NON è una guerra, è il contrario, qui si tenta di salvare tutti e si impone senza chiedere a chi non è a rischio di rinunciare a qualcosa che da bambini e da ragazzi è pesante, è chiedere molto. Il tempo per i bambini è diverso, i legami sociali per i ragazzi tutt’altra storia che per noi.

È un GROSSO sacrificio, ma da principio questi ragazzi li hanno insultati e sfottuti, colpevolizzati e criticati, perché non hanno colto, non hanno capito subito (anche perché informazione e politica sono passati da un capo all’altro degli eccessi in termini di comportamenti consigliati ma ovviamente la colpa era loro).

I bambini piccoli non escono da settimane, settimane! forse non ricordate l’infanzia, il tempo è lunghissimo.

Rompiamo le palle ogni secondo perché non devono stare davanti a TV e tablet, che devono stare all’aria aperta, adesso siamo pronti a sacrificarne felicità ed equilibrio psicologico fingendo che sia per nonno in realtà per la nostra pellaccia da quarantenni ipocondriaci e con la più squallida delle scuse: non potete dire che temete si ammalino loro, non c’è UN SINGOLO caso di bambino che si sia ammalato con sintomi più gravi di un’influenza e questo lo dicono OGNI GIORNO. Tanto che come avrete letto dall’articolo di cui ho messo sopra il link, gli altri Paesi raccomandano che i bambini stiano un minimo fuori.

Il governo italiano ventila che si potrebbe far vedere la luce del sole ai minori e succede questo .https://www.huffingtonpost.it/entry/insulti-ai-bambini-in-strada-dai-balconi-i-genitori-ci-urlano-di-tutto-abbiamo-paura_it_5e84a228c5b6a1bb76511180?ncid=fcbklnkithpmg00000001&ref=fbph&fbclid=IwAR2Y1gPOzUKqrjCPvz5VsUsvJ_Fj6dI25hqiwBJvYt1eIS2tX8hImwnuCew

Vi prego di cliccare e leggere l’articolo.

Insultano, ‘sti catorci della società seduti da pessimi ospiti nel mondo altrui, una bambina rea di essere per strada con la madre. La bambina dice che ha paura ad uscire.

Il danno fatto a bambini che debbano vedersi insultare da catorci inutili e parassiti dell’ossigeno del pianeta quali questi cosi, che nemmeno definisco forme di vita, è un danno enorme.

La paura e la sfiducia che si saranno create dentro quella bambina hanno gettato un’ombra dentro di lei, che è padrona del futuro della nostra specie, che è imperdonabile, punibile con la galera a vita.

Non vi dovete permettere, e lo dico da donna senza figli e che non dovrebbe capire ma mi pare che io abbia a cuore i figli degli altri spesso con più lungimiranza di alcuni genitori egoisti e narcisisti, non vi dovete permettere di insultare i bambini e i ragazzi perché siete ospiti, spesso inadeguati, spesso falliti, spesso non avete saputo cogliere le vostre chanches, spesso invece vi sono state rubate da vecchi avidi ed egocentrici che hanno continuato a controllare tutto anche da dentro un polmone d’acciaio, gente senza amore per l’Umanità e anzi carica d’odio e invidia verso i giovani. Se appunto magari è proprio questo che vi ha reso a vostra volta acidi, cattivi e patologicamente egocentrici (una delle ragioni dell’ipocondria) allora a maggior ragione abbiate un minimo di amor proprio e non permettetevi, anzi scusatevi con questa nuova generazione che non fa altro che pagare l’infantile inadeguatezza dei suoi vecchi.

Gli si è tolto tutto, la speranza del lavoro, di farsi una famiglia, il pianeta su cui devono costruire la prossima tappa della nostra specie. Adesso anche l’aria e persino per pretesa, senza vergogna. Non permettetevi più sennò questo momento storico sarà inevitabilmente quello in cui dovremo prendere atto che questa morale non funziona e sarà meglio agire come gli elefanti.

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Non veniamo a dare ciò che avanza ma a condividere ciò che abbiamo

“Non veniamo a dare ciò che avanza ma a condividere ciò che abbiamo”, questo concetto con cui si sono presentati è la spiegazione semplice del perché ho capito di essere una persona di sinistra.

Non si “decide” una cosa del genere, ad un certo punto si “sa”. E non perché lo fossero i miei ma perché ad un certo punto, sicuramente per i valori per cui mi hanno cresciuta, capisci che lo sei, tra le tante ragioni, anche perché sicuramente è facile fare “beneficenza” quando ne hai che ti avanzano, dura è spartire il poco che hai pur a rischio di restare senza o rinunciare a ciò che ami.

Il pluricitato papà aveva delle rigidità ai miei occhi insopportabili, quando ero piccola in un mondo capitalista. Una volta ricordo che in una discussione al campeggio spartano in cui ci portava d’estate, sentii qualcuno dirgli: “Va bene allora ti sta bene metterti in fila per la carta igienica con uno Stalin che ti comanda”.

E lui ha risposto: “Se c’è uno che comanda non è comunismo applicato ma il comunismo è stato un pretesto per un totalitarismo, in ogni caso è molto più facile che ti trovi in fila per la carta igienica in un mondo capitalista, con la differenza che in fila ci sarà chi è pronto a menarti per prenderla a te, e in un mondo comunista invece è più probabile che ve la spartite”.

L’ideologia comunista e la sua inapplicabilità, la sua utopia, mi sono chiari dopo anni di studi e osservazione ma ho compreso di essere una persona irrimediabilmente di sinistra per questo valore fondante. La condivisione, la solidarietà e non perché sono pronta a dare i miei avanzi o ciò che non mi costa granché, il saper rimanere coerente con la sollecitudine anche quando sto rischiando di persona e ho mille problemi e paure.

Non è retorica dire che mi hanno commosso le immagini dei medici di Cuba. Con tutte le critiche e le contraddizioni, con tutta la consapevolezza di un’estetica romantica eccessiva di ciò che certe rivoluzioni hanno generato, vedendo intanto la gente che qui fa la fila per la carta igienica, nel sospetto e nel livore dettati dalla paura esattamente come previsto da quello strampalato capocantiere che mi ha generato, non è stato possibile non commuovermi un pochetto.

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Le donne che dovreste veramente criticare (ovvero la volpe e l’uva come falsariga)

In questa valanga di critiche e insulti verso le giovani donne perché si impegnano politicamente “e chi sei tu per impegnarti politicamente”, o perché hanno successo sui social accusate di vendere un mondo superficiale “come osa fare i milioni Chiara Ferragni”, o perché semplicemente esistono e sono giovani, le creature più pericolose da cui invece dovremmo guardarci, le donne che ammorbano seriamente la dignità del femminile sono quelle che vedo invecchiare con me da anni, una categoria precisa: magari mai state belle ma hanno deciso di giocare la carta del che schifo essere belle, io sono intellettuale (dove l’intellettualismo si è limitato magari ad un paio di libri su quanto non abbiano bisogno del maschio, scritto mentre piangevano in un angolo aspettando la chiamata di quello sposato che le vedeva in qualche pomeriggio libero), magari hanno provato a fare le attrici, non riuscendoci per poi dire che tanto il cinema italiano fa schifo, per infine invecchiare creandosi una specie di fama sbilenca sputando su tutti, fingendo un cinismo e una posa un po’ Hemingway un po’ Carrie di Sex and the city, continuando a dire che sono cretine e cornute quelle che hanno un compagno o peggio una famiglia con figli, idiote quelle che hanno successo perché tanto non lo meritano, zoccole quelle cui è stata donata la bellezza, brutti i film in cui il peccato originale è stato che quel regista o produttore non ha mai considerato la criticante come sceneggiatrice, orridi i libri che sono andati meglio dei suoi stupidari pseudo intellettuali ma buoni nemmeno per leggere qualcosa al posto dell’etichetta dello shampoo quando si fa la cacca.

Questo genere femminile, oggi naturalmente in prima linea contro le Greta ma anche le Ferragni (che hanno il peccato oltretutto, nei confronti della criticante-tipo cui mi riferisco, di aver spazzato via il suo essere stata pallida “tweetstar” per otto minuti) è la cosa più triste e stancante, mortificante per il buon gusto e devastante per ogni forma di lotta femminile, cui assistiamo.

Ma non ne parliamo, loro non le blastiamo.

A vedere il bicchiere mezzo pieno si spera che sia perché nonostante l’importanza che si danno come giudici del reale, hanno meno peso della piuma di Forrest Gump.

A vederlo mezzo vuoto nasce il timore che questo spostamento della generale critica e dell’odio da costoro verso invece chi ha valore o tenta di crearlo, ci sia perché la società alla fine preferisce un femminile acido, fallito e livoroso all’idea di giovani donne che hanno reale impatto sul mondo e soprattutto, decenni davanti di vita e futuro per cui combattono che ‘ste vecchie volpi incartapecorite anagraficamente non hanno, ed è questo che le fa sbavare tanto fingendo di ignorare l’uva.

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Confondere una trasformazione necessaria in un nemico da uccidere (anche nella rivoluzione delle donne)

La nostra prima battaglia ideologica nel mondo è contro una realtà pericolosa abbattendo la quale:

-potremmo tutti comprendere l’ordine delle priorità ergo le emergenze per la nostra sopravvivenza assoluta: il bene del pianeta, il pericolo nucleare, la gestione della tecnologia

-potremmo ragionare sulle emergenze sociali alla base della nostra qualità di vita e sicurezza: incentivare e rendere accessibili sanità, istruzione quindi cultura, distribuzione di lavoro e risorse in modo più equo, eguaglianza di diritti legali e sociali, arricchimento etnico e culturale delle nostre società (primo motore dello sviluppo culturale ed economico delle società che evolvono) con tutela dell’espressione delle diversità di scelte private (sentimentali, religiose, tradizionali)

– ripensamento filosofico e quindi trovare soluzioni pratiche ad un sistema capitalistico che uccide le persone, crea avidità quindi ingiustizia, guerre, iniquità, sistema allo stadio terminale che alla luce del punto primo, richiede di essere sostituito da un sistema più consono alla evoluzione del mondo.

Questa realtà che ci acceca da questo semplice programma si chiama DEMAGOGIA. Il nostro principale nemico è l’accecante e stucchevole DEMAGOGIA, generata e insieme generante QUALUNQUISMO, nascosta anche dietro le migliori intenzioni e che a volte fa male ad una giusta causa invece che sostenerla.

Ecco perché chiedo, pubblicamente, alle colleghe di professione REGISTA nel mondo di meditare 45’, pensare all’effetto, origini e conseguenze di ciò che si dica nell’ambito del nostro microcosmo, sulla scelta fatta da esseri umani di sesso femminile in professioni (mica solo questa) in cui culturalmente e praticamente ci si è ritrovate e ci si ritrova ad avere più oggettive difficoltà. Non sono battaglie in cui si debba abbattere un nemico, sono sfide in cui si deve trasformare una mentalità e la caduta in affermazioni o atteggiamenti naive, diventa un passo indietro nella credibilità di questo concetto. E non ho altro da dire su questa faccenda.

Nella foto: la 18enne Alyssa Carson, la più giovane graduate alla Advanced Space Academy, unica persona al MONDO ad aver finito tutti i NASA camp.

Perché lei? Da piccola volevo fare l’astronauta. Mi hanno detto: per una ragazza è impossibile. Poi ho detto di voler fare la Regista, mi hanno detto che era come voler fare l’astronauta.

Non mi sono lamentata e mi sono messa a lavorare duro per farlo. Alyssa si è messa a lavorare duro per farlo e ha doppiato persino il mio progetto “impossibile” perché “una ragazza”. Fare crea la Rivoluzione.

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L’equivoco del #successo

Sempre sull’ossessione della fama e l’equivoco del successo.

Chi decide di dedicare la sua vita a qualcosa di complesso e totalizzante come il prestarsi ad una forma d’arte, e lo fa in vista dell’essere un giorno “ricchi e famosi”, a mio avviso parte malissimo.

Prestare la propria intera vita, (dato che ogni mestiere legato alla creatività è un legame diabolico e una vocazione che non fa sconti) ad una vocazione ha il suo senso nella fatica stessa e nel percepirsi come uno strumento, nella rabbia e nel piacere del personale miglioramento, nell’umiltà quando si dà al mondo il prodotto finito e si sa che il mondo ha il diritto di farlo a pezzi ma tu, mentre lavori sei solissimo, merito e colpe sono solo tuoi.

Il merito tentano tutti di espropiartelo, le colpe sono tutte tue, questo lo sai e lo accetti.

A me irrita quando la gente stolta la mette sul piano di fama e successo, perché oggi come oggi significa metterla sul piano della foto 2: essere famosi per essere famosi, che tutti ti conoscano e, attenzione, che pur ti odino e insultino ma il dio algoritmo ti benedice famoso purché se ne parli.

Non è nemmeno questione d’essere amati, o bravi in qualcosa ma essere famosi.

Quindi, per l’Arte, oggi il “non essere famosi” sta diventando, speculativamente parlando, sintomo del fare bene e reale garanzia di eternità?

Il successo andrebbe inteso come forma del verbo succedere, nell’Arte: volevo realizzare quest’opera, è successo, riuscire a fare questo difficilissimo passo per cui ho buttato sangue, è successo.

Quel per cui tutti quelli che perseguono la fama è e rimane come sempre la paura atroce della morte e dell’oblio ed è umanamente tenerissimo il fatto che non ci si renda conto che niente ci salva dal Tempo implacabile, non certo il fatto che tutti ci conoscano e nemmeno forse un’opera che attraversa i secoli.

Quel che ha sempre irritato gli dèi e acceso la loro invidia rimane il fatto che non siamo immortali ma i nostri istanti di soddisfazione e la dignità dei pochissimi istanti di una piroetta che finalmente è riuscita per poi essere già pronti a sudare e farci male per il prossimo passo per la sola gioia degli spettatori e nient’altro pur sapendo che un giorno spariremo per sempre loro non sanno come ottenerli. È solo il saper di sparire per sempre e avere poco tempo che li rende veramente eterni.

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I demoni e Babbo Natale

Ho ostilità da sempre verso i cartoni animati, mi fanno una certa impressione, il fatto che ci siano delle figure che parlano e si muovono come fossero reali ma in realtà sono disegnate.

Così come non ho alcuna simpatia, come chi mi conosce sa, verso bambole e giocattoli.

Ho passato la vita a cercare di ricostruire dove possa essere il trauma che mi fa detestare tutti questi simboli e passioni dell’infanzia.

Mia madre una volta mi ha detto che forse è dovuto ad un cartone animato in bianco e nero che ho visto da piccola, e che ha detto mi aveva impressionato.

Invece ultimamente comincio a pensare che sia dovuto a un fattore di cui sono convinta, ho scoperto da un mio vecchio diario, da sempre.

Che dal punto di vista pedagogico, penso sia sbagliato e crudele crescere i bambini con la convinzione di un mondo protetto, difeso, colorato e posticcio. Personalmente, credo che in me possa essere scattato un qualche senso di tradimento rispetto a quegli stilemi di cui ti circondano da bambino.

Sono sempre stata convinta, anche nella vita adulta, che sia meglio essere molto chiari ed espliciti e prepararci sempre al peggio. Cosa di cui mi convinco sempre di più, osservando adesso, da adulta, tutta una generazione di bambini di cui ricordo l’infanzia, e di cui osservo il nevrotico egoismo, individualismo, rabbia feroce e spesso immotivata, aggressività e violenza perché il mondo non è il parco giochi personale che si aspettavano.

Forse, come avevo scritto in una mia tesina di pedagogia che riguardava i bambini in varie epoche, dovremmo cominciare ad essere più sinceri e realistici con i bambini. Saper distinguere più o meno da subito nei nostri racconti e rapporti con loro, ciò che fantasia e ciò che invece la realtà.

Più mi guardo intorno, più mi rendo conto che le persone più capaci di amore, di empatia, con reale comprensione di far parte di un Tutto, di capacità di percepire il proprio ruolo della rete di Indra, sono persone che hanno avuto un’infanzia più dura, o comunque con genitori che per certi versi li hanno “protetti“ meno seppellendoli in una sorta di mondo di Oz, prolungato spesso in modo inverosimile.

Tutta questa delicatezza, questo filtrare la realtà con un setaccio a maglie strettissime, secondo me non fa poi tutto questo bene all’adulto futuro e al ruolo che avrà per la società, ed è una convinzione ormai nettissima che ho maturato non tanto per gli studi che ho fatto, per l’osservazione.

Tutto questo per consigliarvi di essere subito molto chiari: Tesoro, Babbo Natale non esiste e noi non c’abbiamo un euro per i regali. Non sentitevi in colpa, almeno un domani non vi accopperanno di notte per averli illusi.

Riguardo la Palombelli, il vero problema era proprio il “contesto”

A proposito, un’ultima volta, delle parole della Palombelli e delle conseguenze di quelle parole, adesso c’è chi supporta la sua teoria “ma non avete considerato il contesto, non avete visto tutta la puntata”, intorno al punto per cui nella storia (inventata, come sempre, a Forum) è una “lei” che picchia un “lui”. Sfugge a chi adesso richiama quel contesto, che lo avevamo chiaro da subito che nella puntata si tratta di una donna che picchia un uomo, e stupisce che si possa pensare che l’accusa alle parole della Palombelli nascesse da un equivoco in tal senso.

Sì parlava di una donna che picchiava un uomo, cosa dovrebbe cambiare?

È proprio qui che si svela un pregiudizio, un luogo comune che personalmente associo alla tendenza della nostra epoca di fare di tutto un gadget, uno slogan pubblicitario, una moda. Ci si è interrogata una studentessa di cui ho seguito la tesi di Laurea, parlando di femminicidio, su quali siano i rischi di un termine e quante le probabilità di circoscrivere un problema o addirittura banalizzare – se non giustificare – un reato contro la Legge ma soprattutto contro la morale, contro il diritto di un individuo, circoscrivendo un problema, soprattutto per queste benedette parole e come suonano una volta che diventano un termine il cui senso non si è compreso appieno.

Questo pregiudizio ha fatto sì, secondo me, che per un processo inconscio della Palombelli, sia arrivata ad esprimere quelle parole incredibili sentendosi coerente: “Ehi, ragazze, ma perché mi aggredite, qua è una donna che picchia un uomo, di che parliamo?”

Inutile far notare la freccia semantica tra il riferimento ai sette femminicidi e il caso che si andava ad affrontare per annullare completamente il senso di questo inconscio senso di coerenza , ma ancora più inutile forse fare riferimento al fatto che l’inaccettabilità dell’uso della violenza verso una persona con cui si ha, si vorrebbe, non si ha più e non si accetta, una relazione, non riguarda una sola circostanza possibile. E non ci sono scuse, mai, per quanto esasperante sia qualcuno con cui si condivide un rapporto di qualunque tipo, il ricorso alla violenza riguarda se stessi e il proprio mondo interiore, non l’altro e il suo comportamento.

A me è successo di un caro amico la cui compagna ha fatto male più volte, per gelosia, ma male male, lui mi mandava delle foto scrivendoci sotto “se mi trovano morto sai cos’è successo, questa è la prova di quello che mi ha fatto oggi”. Perennemente pieno di graffi, addirittura di morsi. Non è stata l’unica volta nella mia vita, in cui ho purtroppo avuto diverse amiche con uomini violenti e sono la maggioranza, che mi sia però ritrovata ad assistere a relazioni tossiche in cui la vittima fosse un uomo che subiva violenza da parte di una donna, o di coppie di persone dello stesso sesso. Ho frequentato per molto tempo una coppia di amici apparentemente molto innamorati, uomini, di cui uno dei due tendeva a picchiare il compagno in quel caso non per gelosia ma perché, diceva “era nel suo temperamento, quando si arrabbiava”.

In ognuno di questi casi ho, naturalmente, spinto con ogni consiglio possibile la persona maltrattata a denunciare, cosa che gli uomini non fanno perché la nostra cultura machista li fa vergognare d’andare da un poliziotto o un carabiniere a dire “mia moglie mi picchia”, ma nemmeno riesci a convincerli a liberarsi da un rapporto così tossico perché, e qui è il punto, sempre culturalmente ritengono che una donna violenta in un rapporto sia gestibile, sia solo un po’ pazza, sia da nascondere il fatto che per quanto esasperanti, non risponderebbero mai con le stesse modalità “so che se reagissi le farei molto più male” e pensano che, in quanto fisicamente più forti e padroni di se stessi, sia giusto ritrovarsi con un occhio nero o rischiare di essere uccisi a coltellate mentre dormono.

Saranno esasperanti questi uomini o donne coinvolti in relazioni con una persona dell’altro sesso o dello stesso sesso che è violenta e prepotente nel pretendere amore, attenzioni, d’aver ragione? O ha forse un problema chi pensa che l’altro sia una sua proprietà e può disporne come vuole? E perché in una coppia di uomini o di donne, la questione di un rapporto tossico solitamente non sveglia coscienze, non si trova una definizione anzi si tende solitamente a fare battute omofobe e cattive, come fosse ovvio che ci siano occhi neri e braccia rotte: sono pazzi, non sono normali, è “un classico lesbodramma”, e via così.

Perché, parlando di parole e del loro peso, non allarghiamo il concetto, in un’epoca in cui tentiamo di rendere moda – ma ben venga purché se ne parli come nel caso del femminicidio – la necessaria abolizione di confini e definizioni, e usiamo questo buffo asterisco nelle finali di una lingua, quella italiana, per cui se in un gruppo di cento persone una è uomo, allora si usa il plurale maschile, quindi un’epoca in cui abbiamo capito il pericolo delle definizioni strette e delle ghettizzazioni, non normalizziamo che in nessuna relazione, in nessun caso, è accettabile la violenza con il pretesto dell’amore? Il senso del possesso, del dominio, che portano al femminicidio inteso come non-accettazione di ciò che la donna rappresenta per una cultura machista che inconsciamente o meno invidia tanto i talebani, come ha alla fine sintetizzato la studentessa di cui sopra, è un termine che riguarda il desiderio di uccidere non quella persona e basta, ma ciò che rappresenta, è questo che intende quel termine nella nostra cultura, allora se sono le parole a controllare la nostra logica, troviamo un termine che non sia solo omicidio, delitto, lesioni, per un reato che riguarda un desiderio di controllo e dominio tale verso una persona da ritenersi in diritto di ferirla, maltrattarla, arrivando a toglierla dalla faccia della terra se non fa quello che vuole chi pensa di averne proprietà.

Così equivoci come il meccanismo inconscio per cui la Palombelli si è sentita tranquilla ad usare quelle espressioni perché, ripeto, inconsciamente, pensava di non stare toccando un argomento per cui sa bene che sarebbe stata linciata, non accadrebbero più.