Dirò una cosa molto impopolare (ma d’altronde sono riuscita a sopravvivere dopo aver ammesso di essere allergica ai gatti e di non trovarli eccessivamente adatti alla vita umana) impopolare soprattutto considerando il mestiere che faccio e che mi sono costruita faticosamente.
Io non vado quasi più al cinema.
Vedo sempre moltissimi film ma la maggior parte di questi li vedo sul mio grande televisore.
Perché non vado quasi più nella sala cinematografica a vedere quelli che chiamavo miracoli della celluloide, sogni sullo schermo, magia evanescente?
Partiamo dall’inizio. Chi mi conosce sa perché ho deciso di fare la regista.
Perché ho amato il cinema fin da piccola per l’imprinting dello stupore, dell’ammirare a bocca aperta immagini bellissime, seguendo una storia, e questo in una sala diventava un rituale collettivo, che come tutti i rituali collettivi – dalla processione religiosa alle cerimonie significative della vita di una persona che ti invita a condividerle, fino ad arrivare allo spettacolo – significa compartecipare alle emozioni di gente sconosciuta in quella che Foucault chiamava un’ eterotopia, un luogo altro, deputato a quell’esperienza.
Partendo da queste premesse, perché allora oggi come oggi ormai “recupero” la maggior parte dei film, in particolare quasi tutti quelli italiani e oltre il 50% quelli europei, sul mio grande televisore di casa:
a) nella maggior parte dei film italiani e almeno nella metà di quelli europei, in quanto ad immagine c’è poco da restare a bocca aperta, poco da stupirsi. Anche personalmente ho fatto autocritica in passato perché ho ceduto, mi sono fidata diciamo, di un sistema che ti dice che il film che amano i critici, il film che si aspettano quelli che ti permettono di farli, i film, devono essere di una povertà visiva sconcertante. Se un regista si sveglia dall’ipnosi rincoglionente del piccolo, provinciale “sistema” e si ricorda che lui, in realtà, i film li fa per il pubblico, appena prova a rendere più internazionale, spettacolare, virtuoso il suo film da un punto di vista formale gli danno del commerciale (quando poi il cinema “commerciale” in Italia è veramente l’abisso oltre la fiction ma almeno spesso fanno ridere) gli danno del presuntuoso, sta subito antipatico perché tu, regista, devi stare basso, attenerti al livello generale, il tuo film, visivamente, deve avere “quella” fotografia, “quella” sciattezza, “quelle” musichelle, “quegli” attori e soprattutto “quelle” recitazioni stonate che tanto piacciono a chi satellita intorno al cinema (non chi lo fa ma chi ci mangia parlandone, mostrandolo, festivalandolo, facendoci premi e premiuzzi, laboratori tenuti da chi non hai mai scritto una sceneggiatura etc). Questa povertà essenziale, questa sciattezza, questa ripetitività ingenua vengono considerati cinema intellettuale, cinema d’autore. Questo, arriva sugli schermi.
Poi, ultimamente abbiamo avuto della gente più illuminata a tenere le fila della produzione filmica, tra quelli che “permettono di fare” i film, ma appunto appena viene fuori qualcosa di magnifico, di bello, di non sciatto, un certo sistema di critica e criticoni si rotola vomitando verde come Linda Blair dell’Esorcista e paradossalmente, a questi nuovi pioneri della Bellezza, la vita in patria diventa difficile (peggio ancora se hanno successo oltralpe, lì arrivano a camminare come i ragni, i fautori del cinema pseudo intellettuale)
Ma, a parte questi piccoli distinguo, merito di gente più coraggiosa e libera dal generale incantesimo, la maggior parte di quel cinema lì, quello considerato d’autore, è una cosa che davvero non si capisce perché debba finire sul grande schermo – o non si capisce come possano pensare che per il grande schermo si lavori così.
Però, in Italia abbiamo diversi bravi sceneggiatori, chi lavora dentro casa propria creando una storia spesso è più impermeabile a certe sollecitazioni, meno circondato di quaquaraquà invadenti, quindi spesso queste scatole misere, queste Ikea della fattura filmica, hanno dentro delle storie interessanti.
Ma se io devo seguire una storia, solo la storia, che ci vado a fare al cinema pagando otto euro quando mi va bene, per vedere una cosetta mediocre visivamente? Sul grande schermo l’immagine filofiction mi innervosisce e spesso per questa ragione non mi accorgo che la storia era bella. Me ne accorgo se rivedo il prodotto audiovisivo in Tv, perché lì, in piccolo, la visione è più concentrata sulla storia.
E allora ho deciso, quei film lì, per evitarmi i nervi di essere uscita di casa, aver cercato parcheggio, speso otto euro più la multa per la macchina necessariamente parcheggiata male, me li vedo direttamente in Tv. Lo sforzo per andare in sala a vedere un film lo faccio per quei film che so che mi lasceranno a bocca aperta per le immagini, persino se la storia è scritta meno bene perché io lì pago per vedere, non per “leggere”o “ascoltare”una storia.
b) Anche quando un film mi fa venire voglia di andare al cinema c’è un altro scoglio, legato al concetto suddetto di rituale collettivo.
La gente. Lo spettatore contemporaneo.
Dicono di volere andare al cinema per non stare a casa e per vedere gente, quindi. Stare in mezzo alla gente. Ma poi arrivano al cinema e se stanno in fila si innervosiscono, tentano di passare davanti agli altri, sembra che il fatto dell’esistenza stessa di altri esseri umani ponga la maggior parte della gente in uno stato di perenne conflitto, stanno tutti sulla difensiva, è tutto un “c’ero io, avevo detto prima”.
Poi entri, magari con i tuoi posti assegnati dal servizio online che hai utilizzato per evitare le discussioni di cui sopra e nove volte su dieci nei tuoi posti scelti una settimana prima e pagati di più, trovi due dementi che ti dicono cose tipo “eh vabbè ma è vuoto” “eh dai, ho due posti non centrali mettetevi accanto se arrivano quelli dei posti ci alziamo” e via così. Devi battagliare e tentare di spiegare a degli analfabeti civili alcuni concetti base che non hai voglia di discutere nel tuo tempo libero. Se riesci a sederti senza uccidere, ça va sans dire intorno a te pensano di stare a casa a guardare l’Eredità: commentano, parlano e tentano di indovinare la parola.
Se provi a dire “ssh” o chiedere silenzio ti si magnano pure.
E allora ti dici: ma io devo pagare pure per vivere tutta questa tensione? Non mi basta prendere l’autobus o andare alle Poste per nutrire il mio dubbio sulla necessità dell’essere sette miliardi su questa Terra? No, io se esco è perché voglio rilassarmi e stare bene, e per me rilassarmi e stare bene non significa – però – mancare di rispetto agli spazi altrui, venire meno ad alcune regole non scritte.
Ma il resto dell’umanità è ormai stata quasi totalmente sostituita dall’Homo egocentricus, una stragrande maggioranza di convinti d’aver totale diritto a qualunque cosa, per primi se non per unici.
Quindi se voglio vedere un film che sono certa mi piacerà sul grande schermo, la soluzione che abbiamo trovato al momento, Lorenzo e io, è il primo spettacolo, il primissimo, meglio se hanno spettacoli mattutini, che a quell’ora di solito c’è gente che va al cinema per vedere il film, non come alternativa a fare i rutti in birreria.
Ecco perché, finché le cose non cambieranno, finché tutto il cinema non tornerà a farmi sognare, e la gente non tornerà a saper fare lo spettatore, io al cinema non ci vado quasi più.
Che lavoro fai?
Sul sito http://www.anneriittaciccone.com ci sta la voce “che ho fatto”,per sintetizzare