Le tristi avventure di un fruitore delle sale di qualità (con sfumature di grigio)

Non ricordo esattamente la prima volta che sono andata al cinema. Il primo ricordo di me dentro un cinema è di una Biancaneve e i sette nani di Disney che mi ha lasciato particolarmente scossa, non tanto per la strega e quella storia lì, ma non riuscivo a capire il rapporto di “una ragazza che sembra vera” con dei “nani disegnati”. La differenza stilistica tra Biancaneve (scoprirò poi negli anni che veniva riportata fotogramma su fotogramma sull’azione di un’attrice reale) e dei nani così stilizzati mi irritava, evidentemente. Il risultato è che mi disturbava allora come mi disturba oggi.

Però ricordo che di sicuro ho sempre amato andare al cinema, d’altronde ho deciso che lo avrei fatto di mestiere a nove anni, idea rinforzata da esperienze di cineforum dopo, amore per l’ingresso in sala e perdersi in un’ora e mezza che mi ha accompagnato in tutti gli anni tra quel tema di quarta elementare dal titolo “cosa farai da grande” e il mio arrivo a Roma perseguendo l’apparentemente folle progetto.

Una delle nostre battaglie, come categoria di mestieranti del cinema e cinephiles, è sempre stata la difesa della sala cinematografica, l’accento sul rituale collettivo, l’esaltazione della bellezza del buio e del silenzio mentre le luci si spengono, lo schermo prende vita e puoi vivere i palpiti degli sconosciuti che popolano la sala.

Per non parlare della differenza sostanziale tra la sala di città, quella a sala unica, massimo due – quella del quartiere, sobria, dignitosa – e le multisale rumorose, piene di luci dispercettive, con puzza di popcorn fritto nel grasso di palma.

Tu fai il cinema che hanno definito d’autore, che poi tu lo faccia perché vivi in un Paese in cui è difficile fare qualcosa che non stia nella dicotomia cinema d’autore/commedia è un’altra storia, ma vabbè, quella sei, sei pure laureata in Filosofia, sei di sinistra, per quello che ormai questo voglia dire ma vabbè, certo non sarai mai di qualcosa che non sia ideologicamente di sinistra, porti spesso le birkenstock, ovvio che ti corra l’obbligo di partecipare all’orrore etico ed estetico per la scomparsa progressiva della sala di quartiere e della consuetudine che crea nel cittadino, che può raggiungere la sua sala a piedi con l’amica, l’amico, la moglie o il marito e andare e godere del cinema di qualità, non costretto dal sistema alla fruizione forzata del blockbuster.

Ora, personalmente non sono così manichea nella distinzione tra i diversi risultati del cinema – dico risultati perché, che lo ammettano o meno, tutti i registi quando iniziano un film, fosse anche il più pianificato intrattenimento, sognano di fare un capolavoro – non ho mai storto il naso davanti al blockbuster, perché toglici pure l’intrattenimento di inseguimenti paradossali, eroi che uccidono mille cattivi con una sola pallottola in canna, alieni che invadono il mondo e gli americani lo salvano, e ditemi voi uno che campa a fare.

Memorabile rimane nel mio ricordo un dibattito a cui ho assistito nel corso della rassegna “Bimbi belli” che Nanni Moretti, idolo dell’intellettuale italiano, modera da diversi anni. Una ragazza con la kefietta al collo iniziò la sua domanda così:

“Premetto che io non sono una di quelle che va al cinema a vedere Matrix…”

e il grandioso Moretti rispose:

“Mi dispiace per te.”

Confermandomi che il vero intellettuale non prende posizioni ridicole, non è insomma atteggione e non diventa mai una macchietta.

Io poi non ho mai demonizzato nemmeno il grasso di palma perchè quei popcorn lì sono una droga, né il portare una dozzina di bambini sciamanti a vedere il cartone animato tra luci stroboscopiche e strane mascotte che si aggirano tra le trentadue sale del multiplex.

Non giudico chi ha le nevrosi che portano a dividere le cose in bianche o nere ma personalmente non ho l’ipocrisia di dire che perché leggo volentieri Kant o amo le inquadrature di Dreyer, poi non trovi riposante anche tifare per il buono in un bel filmone d’azione in cui si casca dal centesimo piano e si atterra indenni, senza contare che sceglierò sempre di andare in sala proprio volentieri a vedere il bel film di fantascienza, quello che da piccola chiamavo “i film del futuro” con immagini ed effetti speciali spettacolari.

Ci piaccia o no, il cinema è prima di tutto uno spettacolo.

Nasce come trovata tecnologica, quindi scientifica, lo strumento viene utilizzato per l’arte, ma che diventi prodotto artistico con buona pace di critici e aspiranti Fellini, si sa solo dopo, quindi di fatto la sua natura profonda, il suo nocciolo duro è quello di essere uno spettacolo.

Ma c’è poi un fatto che mi preoccupa e che mi porta a scriverne, che riguarda la sala- cinematografica- di- città- da- film- di- qualità.

NON entrerò nel merito dell’argomento del cinema di qualità che potrebbe anche uscire da questo budello in cui si sta chiudendo in maniera degenerativa progressiva da qualche anno in qua, per cui  si fa a gara a rendere particolato sottile gli attributi degli spettatori. NO.

Non è su questo che voglio soffermarmi. Non sparerò sulla croce rossa degli argomenti scelti e dello stile utilizzato. Usciremo anche da questo momento particolare e confido sempre in un ricambio generazionale dei critici, per cui smetteremo di definire “povertà essenziale” il film girato male e fotografato peggio o riferire di un’ “atmosfera sospesa/rarefatta” quando la sceneggiatura ha dei problemi di struttura.

Parliamo della SALA e dell’esperienza di frequentarla.

Quella sala che dovremmo difendere e che la gente dovrebbe scegliere al posto della sala del multiplex.

Io esco di casa, mi faccio qualche chilometro a piedi o in bus e raggiungo “la sala di qualità” dove vado scientemente a rendere spalmabili i miei virtuali, metaforici, attributi. Lo so, sono consapevole, lo scelgo, SO cosa vado a fare.

Pago otto euro/otto euro e mezzo (sì, ti propongono prezzi stracciati di mercoledì pomeriggio ma giusto i pensionati possono andare al cinema di mercoledì pomeriggio).

Entro in un cinema che puzza di muffetta. Una cassiera o un cassiere dal look vagamente anni ’70 con capello grigio mi stacca il biglietto senza un sorriso.

La luce sulla cassa è giallognola, dando al malcapitato anche un colorito tetro che non aiuta.

All’ingresso campeggiano recensioni a dodici palle (ça va sans dire) dello spappolacastagne che stai per andare a vedere. Le coppie brizzolate in attesa, con polacchine ai piedi o birkenstock (a seconda della stagione) fingono di leggere con grande attenzione le recensioni, mentre io solo a vedere le foto e/o leggere la sinossi ho di solito un paio di secondi di ripensamento, tipo quando ormai ti hanno imbragato sul sedile del gioco che ti mette in testa in giù al luna park.

Ma ormai è fatta.

Entri in sala.

Le poltrone sono sfondate, puzzicciano un po’, le ginocchia te le metti tra le costole e ti rassegni. Ora parte lo shuttle del luna park e speri solo di non vomitare.

Ma a quel punto vuoi disperatamente vederti in pace il tuo film uzbeko di sei ore e quaranta con otto battute diretto da un regista prodigio di nove anni che tanto è stato amato dai critici e che ha vinto tutto a Cannes, ma questo, nella sala di città del cinema di qualità, da un po’ di tempo non è più possibile.

La Lina e la sua amica Gianna sono dietro di te e parlano durante gli spot della pizzeria e dell’Università, hanno parlato durante la sigletta dei cinema di qualità d’Europa, continuano a parlare ora che ci sono i titoli, e proseguono mentre già parlano (in verità poco) sullo schermo.

Tu ti giri, fai COF COF per ricordare loro che non sono sole a casa a vedere l’Eredità, ma non ti aiuta il fatto che il signore che siede tre poltrone più avanti, sugli ottanta anni, pensando di sussurrare delle robe alla moglie, strilli.

Il pubblico del cinema di qualità bisbiglia continuamente. Non è il gruppo di ragazzi che fischia e urla “Quest’anno tutti in Austria” alla scena di Indiana Jones quando la nazista lo bacia, certo.

È peggio.

Psssszzssppsssas pzpssssszzsss

Che c’hanno da bisbigliarsi non si sa.

Loro bisbigliano tutto il tempo, a turno, tutti.

Immancabilmente a un certo punto scatta una suoneria di un cellulare che non sanno spegnere, e così mentre sullo schermo il povero pastore è costretto a vendere le sue ultime pecore per permettere alla moglie di curarsi e una scena evocativa di un bambino che balla in silenzio sotto la luna chiude la scena, gli Intillimani in versione jingle risuonano nella sala e tutti borbottano degli “e insomma” a soggetto e prendono a pretesto il colpo di scena per aumentare i bisbiglii.

Intanto le tue ginocchia sono più o meno necrotizzate, cerchi di trovare una posizione di sbieco, di stendere le zampe sotto la poltrona davanti a te, la borsa che hai sulle ginocchia ti scivola, il cappotto spiaccicato sotto il sedere è diventato una pallotta fastidiosa, hai sete, devi fare pipì ma sei bloccato, guardi l’orologio e pensi che in fondo mancano solo tre ore e dodici minuti prima che si arrivi al finale aperto in cui non si capisce una mazza che ti porterà alla fine del tuo intellettuale supplizio. E quello di solito è il momento in cui si blocca il film.

Qualcosa non va, va fuori sync, si accendono le luci, tutti fanno “ooohhaahaahhoooooh” di disappunto, ci si guarda tra noi come personaggi di un film onirico su un treno che conduce alla morte, qualcuno sfoglia uno dei flyer che ha preso alla cassa che parla di una meravigliosa mostra di ceramiche siberiane che si terrà in una chiesa sconsacrata a Trastevere, poi riparte il film.

E dopo questa pausa hai quella sensazione che provi durante una maratona prima di superare la crisi e andare avanti sulla forza dell’adrenalina.

Pensi che non puoi farcela, non puoi. Ma eroicamente vai avanti.

Ti concentri sul fatto che stasera cucinerai quel meraviglioso filetto, che hai registrato tutto Walking dead e avete deciso di cominciarlo oggi.

Giuri a te stesso che per gratificarti farai le cinque e te lo vedrai tutto, Walking dead, e il primo che farà lo snob parlando male delle serie HBO gli darai una sediata in faccia.

Così, lenendo i tuoi dolori con l’immaginazione compensativa, riesci a concentrarti sul pastore uzbeko.

Finisce il film, stacchi le ginocchia dalle costole prima che cominci il processo di calcificazione e tu prenda le sembianze di una delle clonazioni fallite di Ripley, esci in buon ordine mentre il 98,6% dei presenti si metta in fila per il bagno parlando di tutt’altro, dandoti il sospetto che il film non lo abbiano seguito per niente. È difficile seguire, quando bisbigli.

Esci per strada attraverso una porticina oscura nascosta da una tenda verde che sa di polvere e ti trovi fuori, nel mondo.

La cosa brutta è quando procedi verso casa e ti dici: ma non stavo tanto meglio a casa a guardarmi ‘na roba qualunque sul mio televisore ultrapiatto più grande dello schermo che c’era qua e con il sonoro stereo, senza bisbigli, rutti, suonerie, puzza di muffa? Non stavo tanto meglio comoda sul mio divano a godermi fosse pure questo stesso film in dvd, che tanto per quello che è il lavoro sull’immagine e considerando quegli otto centimetri di schermo polveroso in più che ti danno nelle sale piccole dei cinema di qualità, a vederlo qui per diciassette euro in due, non è ti abbia dato chissà quale godimento estetico in più?

E poi dai, ‘sto benedetto rituale collettivo… Gente che bisbiglia o si fa la pennichella perché evidentemente al cinema di quartiere ci va o per obbligo psicologico di una stantia mentalità da filisteo colto o tanto pè fa’ nà cosa, sarebbe questo il mio palpitante vicino?

E queste sale, anche quelle presunte rimesse a nuovo, guardate che c’è una via di mezzo tra il blu acceso e le luci stroboscopiche di un multisala stile luna partk e i grigiotti tristi delle vostre moquettes, il giallino delle lucette all’ingresso e, visto che tanto non avete queste folle oceaniche di pubblico, ma la vogliamo levare una fila di poltrone e dare un filino di spazio in più per i nostri piedini santi?

Ecco, ti senti a disagio perché pensi queste cose e sopratutto uno slogan risuona nella tua mente, uno slogan di sconfitta, di principio di realtà, di ammissione dolorosa:

NON STAVO TANTO MEGLIO?

shutter_luna_park

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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