Un paio di giorni fa hanno proiettato alla Casa del Cinema di Roma un documentario girato da Lorenzo, mio marito, di cui sono pazza (di entrambi, del marito e del documentario). Si chiama “Terra da Fraternidade” l’ha realizzato tra Spagna e Portogallo, prodotto dalla televisione portoghese, coprodotto dall’Italia ma di fatto riguardante l’attuale situazione portoghese, la rivoluzione poi purtroppo sgonfiatasi nel giro di un annetto che ci aveva fatto ben sperare nel 2011/2012. La gente cantava Grândola, Vila Morena, una canzone rivoluzionaria del loro 25 aprile, quello del 1974, interrompendo una seduta in Parlamento nel 2011; quella canzone l’hanno cantata un po’ in tutta Europa come simbolo di un popolo che non ce la fa più a veder condizionata la sua vita dalle Banche e da un sistema economico che non ha pietà della gente.
Ci sono un paio di momenti del documentario che sono estremamente toccanti, un professore che ha fatto la rivoluzione del 1974 che si commuove ripensando al loro 25 aprile, un giovane a cui le banche stanno togliendo la casa, dopo che pochi anni fa a fronte di pochissime garanzie gli hanno accollato sulle spalle due prestiti spaventosi. Poi ha perso il lavoro e il resto è immaginabile.
Riguardando quelle interviste mi si è stretto il cuore e finita la proiezione ci siamo tutti scambiati battute un po’ spaventate sul fatto che quindi si sta così in tutta Europa, che lì si parla di Portogallo ma sembra di vedere l’Italia.
Una ragazza finlandese che lavora all’Ambasciata, salutandomi, ha detto “Oddio, speriamo non succeda mai in Finlandia, certo che anche da noi qualcosa è un po’ peggiorato, ultimamente”.
Da quel che vedo dalle persone a me care che vivono lì è peggiorato ben più di qualcosa, ma la caratteristica principale di una delle mie patrie è quella di fare i vaghi, quel Paese non ammetterà all’esterno che qualcosa non va nemmeno se fossero sotto attacco alieno.
Caratteristica invece dell’altra mia Patria, quella in cui ho scelto di vivere, è all’opposto un senso del melodramma che ci fa perdere lucidità e, come il cane che ha mangiato i compiti di scolastica memoria, mi sono resa conto ultimamente che ormai ogni più immondo comportamento viene spesso giustificato dal
“Siamo tutti tanto nervosi”.
È assodato che il mio problema principale nella mia storia personale di sopravvivenza è il contatto umano nel quotidiano, sarà che tendo a essere zen, a credere nel dialogo e sopratutto ho una fortissima fede nel rispetto reciproco, ma dal mio punto di vista di osservazione la vita quotidiana in una città come Roma è una battaglia costante contro cafonaggine e strafottenza.
Il credo del cittadino medio di questa città, che pur adoro, è: “Tu, per non sbagliare, aggredisci”.
Il tono. Quello che fa impazzire è il tono.
Intanto ti danno tutti del tu. E per una figliola ben educata di provincia come me, questa cosa di darti del tu non è sempre ben accetta.
Poi usano prevalentemente la forma verbale imperativa: “Metti/ vai/ prendi/ scrivi”. Un esempio: sei alla Posta dici che devi fare un pacco celere, loro ti passano un modulo e dicono:
“Mettiti da una parte e compila questo, poi me lo dai.”
Non: “Guardi, se si mette lì e compila questo modulo, dopo facciamo la spedizione. Grazie.”
Devi fare delle analisi del sangue, in un Ambulatorio, vai all’accettazione con la tua impegnativa.
Loro prendono, digitano, ti danno un numero:
“Mettiti là e aspetta che ti chiamano col numero 34276717.”
Se poco poco fai una follia tipo chiedere un’informazione aggiuntiva:
“Mettiti là, poi ti chiamano e ti dicono loro”.
Al supermercato:
“Guarda che questi li dovevi pesare.”
“Oddio, mi scusi..sono nella confezione, pensavo bastasse il codice a barre…”
“No, vanno pesati. Vai e pesali, se vuoi, sennò lasciali qua che io devo andare avanti.”
Ultimamente mi è scattata una cosa strana. Un tempo questo genere di comportamenti standard del romano tipo mi lasciavano sì interdetta, ma sopportavo.
Tuttavia, nel tempo qualcosa dentro di me si è smosso, un amor proprio, un ritrovato ardore e buon senso, non so. Un giorno, senza nemmeno rendermene conto, d’emblée, dal cuore, ad uno di questi individui danti del tu con forma verbale imperativa ho risposto:
“Mi scusi, ma come si permette? Che tono è?”
Intorno a me il mondo si è fermato. Altri utenti in fila hanno fatto un passo indietro pensando che probabilmente sarei stata acchiappata da due energumeni da sotto le ascelle e portata via, chissà dove, per scomparire per sempre. O forse sarebbero entrati gli stessi due energumeni in tenuta antisommossa e ci avrebbero gridato. “Tutti a terra, giù!!” e saremmo stati presi in consegna perché magari ormai il contagio era avvenuto.
Invece, sorprendentemente, quello ha cambiato tono, borbottato un: “No, è che …”
“Non capisco questo tono.” ho insistito “Sono qua per un servizio e lei mi sta servendo, perché mi tratta come se fossimo nell’esercito e io una recluta?”.
Egli ha fatto quel che doveva fare, mi ha improvvisamente dato del lei, è stato normalmente educato.
Il suo collega mi ha guardato e detto:
“Sa, siamo tutti nervosi. La crisi.”
Insomma noi riusciamo a portare sempre tutto a nostro favore, qui. Ti schiacciano un piede sul bus, ti urtano con la macchina, ti fregano l’ultima barretta di cioccolato sul bancone dei dolciumi:
è la crisi, siamo nervosi.
Altrove l’idea della crisi e la paura del futuro mettono insieme la gente, qua diventano un pretesto per parlare agli altri come se l’interlocutore gli avesse strozzato il gatto.
Ma rompere l’isteria a volte funziona. A rischio di sembrare matti, essere diretti può essere una formula, anche se poi l’italiano medio ha sempre la risposta pronta: “nonna sta male, non ho potuto studiare”, ringraziando che non ti prendano invece a sediate.
Che altro si può fare, alla fine, invece di stare sempre a lamentarci, ché tanto siamo incapaci di metterci davvero insieme e trovare soluzioni, sappiamo solo prendere i forconi per finire a scannarci tra di noi, sbagliare l’individuazione del nemico, sparare roba populista e qualunquista. Almeno riprendiamoci i formalismi e la buona educazione, pretendiamoli, che sono diventati la nostra prima rivoluzione necessaria.
Abbasso il tu non consentito, a morte l’imperativo.