Quel che mi mancherà per sempre di Shara.

La mattina, quando rimanevo troppo a letto o se Lorenzo si era già alzato da un po’, lei veniva dal mio lato del letto e mi leccava la faccia con la lingua appiccicosa.

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Io le dicevo:

– Shara ti prego, no. –

Lei allora mi alitava in faccia con l’alito inconfondibile dei cani ansimando e la sua coda sbatteva contro il muro alle sue spalle. Allora io mi alzavo, rassegnata. Lei correva davanti a me e si piantava in cucina, con gli occhi che dicevano:

PAPPA! si mangia!

Quando mangiavamo noi ci guardava così:

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le avevo insegnato che si lasciano mangiare gli altri senza disturbare ma quando c’erano persone che lei sentiva più deboli andava lì e poggiava la testa sulla loro gamba facendo gli occhioni e sbattendo la coda e se io dicevo:

– Amore, no, vai via. –

Mi faceva la faccia che corrisponde al dito medio e a un chiarissimo: “tu fatti i cavoli tuoi e lasciami lavorare.”

Quando ero a casa si acciambellava accanto a me e mi seguiva ovunque, anche se andavo solo a far pipì. Pure se dormiva placida, se io mi muovevo lei si alzava con l’espressione che diceva: “Aoh non c’ha pace questa” perché riteneva forse un suo dovere starmi sempre accanto.

Quando uscivo, nel momento in cui aprivo l’armadio e mi preparavo saltava in piedi sbattendo la coda e tirando su le orecchie. Passava da un: “fantastico, usciamo!” a un: “mica starai uscendo senza di me, vero?” con un cenno interrogativo della testa e se uscivo senza di lei rimaneva a una certa distanza della porta che si chiudeva, per essere sicura che la vedessi in totale con tanto di orecchie basse e sguardo triste, sussurrando “ti sentirai in colpissima….”

Quando tornavo, però, mi faceva le feste come fossi sopravvissuta a un bombardamento al napalm.

Quando le davo la buonanotte la sera si metteva a pancia su per le coccole e appena spegnevamo la luce cominciava a farsi il bidè. Se noi le dicevamo:

– Shara, ti prego! – smetteva per qualche istante nel silenzio e nel buio della notte, e poi pensava bene di grattarsi rumorosamente le orecchie.

Quando andavamo con lei alla casa al mare di famiglia, Shara seminava il panico. La grande cucina il suo regno, le tate le sue migliori amiche anche perché guardiane di porta della dispensa e a niente valeva ogni proibizione di salire su ogni divano o poltrona di casa: tutto era il suo regno e nessuno aveva il coraggio di proibirle niente, quindi a nulla valevano i miei tentativi di riportarla alla nostra educazione.  Perché nessuno riusciva a fare a meno di amarla anche se era prepotente, spesso invadente e sicuramente petulante.

Era un cane con un evidente disturbo alimentare, poteva mangiare fino a scoppiare e il suo rumore preferito era quello di un frigo che si apre, rubava il cibo, faceva schifezze con la spazzatura se non sorvegliavi cibo e avanzi a dovere.

Una volta ha rovesciato una latta da cinque litri di olio buonissimo che avevamo lasciato per terra in cucina per leccarselo tutto, un’altra ha mangiato un intero trionfo di frutta lasciato incustodito alla casa al mare e l’abbiamo trovata per terra con un pancione che pareva il lupo che ha ingoiato i tre porcellini e accanto un biglietto: “Lo rifarei”.

Shara mi poggiava la testa sul ginocchio se piangevo, guaiva di gelosia quando Lorenzo e io ci baciavamo e poi sbatteva forte la coda spingendoci con il muso.

Ha avuto un tumore che l’ha tormentata per anni e per cui Lorenzo l’ha curata e seguita con un amore che non si vede quasi nemmeno nel prendersi cura di un proprio consanguineo, e aveva un veterinario miracoloso, Fabrizio, che l’ha fatta vivere tanto più a lungo e con una perfetta qualità di vita, ma anche perché Shara ci ha insegnato che vivere è talmente bello che tutto viene in secondo piano.

I cani non si chiedono “perché” ma si adattano e continuano tutto come niente fosse. Amore, passioni e quel che la divertiva erano sempre quelli.

Si svegliava contenta, andava a dormire contenta.

Shara riusciva a farmi ridere anche quando non ne avevo voglia, il suo respiro sereno quando dormiva mi faceva sentire in pace con il mondo, l’espressione goduriosa quando la pettinavo mi faceva pensare che per essere felici può davvero bastare poco, l’espressione che aveva quando mi vedeva triste mi faceva passare il malumore, quando abbaiava contenta perché si usciva tutti insieme mi faceva apprezzare quanto sia bello fare qualunque cosa, anche la più piccola, con chi si ama.

I suoi ultimi istanti, stretta a noi sul letto, la guardavo negli occhi e le carezzavo il muso, e sono abbastanza sicura che capisse cosa stava succedendo.

Mi ha leccato la mano piano piano, e quel che sono davvero felice che sia successo è che quando se ne stava andando tra le braccia di Lorenzo e io le tenevo il musino guardandola negli occhi, le ultime parole che sono riuscita a dirle siano state: “Grazie, amore mio”. Era quello che meritava, amore e gratitudine.

E non ho altro da dire su questa faccenda.

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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