Un paio di giorni fa sono dovuta andare a sbrigare una faccenda in un ufficio che apre alle sette e mezza, una di quelle situazioni in cui devi prendere il numeretto e aspettare le infinite ore, quelle situazioni tutte italiane in cui spesso trovi dei vecchietti che dormono davanti al portone accampati dalla sera prima e hanno dei numeretti per prendere il numeretto. Sempre se non ci sono altri che stanno lì dalla settimana prima e hanno il numeretto per prendere il numeretto per prendere il numeretto.
Dovevo fare presto e ho una vita, quindi decido di andarci prima dell’apertura, la sera mi sono detta: magari non dormo proprio, faccio tutta una tirata e vado lì dopo aver preso dei cornetti dal cornettaro notturno, tipo alle quattro.
Ma alla fine opto per una sveglia alle sei e mezza, per cui arrivo lì alle sette e venti.
Con mio stupore mi rendo conto che davanti al portone non c’è NESSUNO. Un caso unico, una situazione che potrebbe inscriversi negli annali, studiata per valutare se ci fossero o no gli estremi per la definizione di miracolo. Non senza una certa emozione mi rendo conto che per la prima volta in un contesto del genere, in tutta la mia vita, io avrò il numero
1
Quindi mi appresto ad aspettare i dieci minuti che mi separano dalle settemezza, guardo per sicurezza il cartello degli orari perché era tale l’eccitazione che il topino disfattista del cervello ha comunicato alla centrale: “Magari ricevono solo i giorni pari, ecco perché non c’è nessuno”.
Ma no, il cartello diceva LUN-VEN 7:30 – 12:00.
E comunque la luce all’interno era accesa e si sentivano dei rumori provenire dall’appartamento in cui è ubicato l’ufficio: gli impiegati c’erano, era tutto regolare.
Quindi, zompettando emozionata sui piedi e stringendomi nel cappottino dato che facevano tre gradi, mi appresto ad attendere i dieci minuti che mi separavano dall’apertura.
Mi ha raggiunto Lorenzo, che era andato a parcheggiare, e con una certa commozione gli ho detto:
“Siamo i primi, amore. I primi.”
Nel frattempo si avvicinano due donne, una sui sessanta con cotonatura stile Mars Attack ai capelli, occhiali coi brillini, cappotto grigio con pelliccia di cane sul bavero; l’altra, evidentemente la figlia, più mite nell’aspetto e nei modi.
La sessantenne va decisa verso il portone e lo spinge. Io capisco subito dove sta andando e le dico:
“E’ ancora chiuso, apre alle sette e mezza.” indicando con il dito il cartello con la stessa ingenuità di Leelo nel Quinto Elemento di Besson quando ripete “Multipass” fiera d’essere legale e autorizzata a fare quel che deve fare.
Lei mi guarda con odio, la figlia le fa spallucce come a dire “E’ vero, dice alle sette e mezza”.
La signora guarda me, guarda Lorenzo e poi fa:
“Ma quelli sono dentro, io suono”.
L’universo intero, in quel momento, si è coagulato per me in quell’istante.
Mi è passata la vita davanti.
Mi sono ricordata, fisicamente, della rigidità che scattava nella mano di mia madre che stringeva la mia piccina quando andavamo a fare compere o a sbrigare una faccenda burocratica da che ci eravamo trasferiti in Sicilia e lei scattava furiosa perché niente era come ti veniva detto, niente era come era scritto nei cartelli, niente seguiva la regola che ti era stata data per meglio organizzare la vita sociale e professionale della collettività.
“È così che funziona qua.” ha soppiantato per lei e per noi figlie i concetti con cui eravamo cresciute per cui il semaforo esiste per evitare di spiaccicarsi gli uni sugli altri, le strisce pedonali per evitare di uccidere un pedone e per scongiurare la morte quando sei tu il pedone, gli orari degli uffici sono stati stabiliti per sapere quando puoi sbrigare una tua faccenda, le poste luoghi in cui spedisci e ricevi pacchi aspettando il tuo turno, etc etc etc.
La signora mi è passata davanti e ha citofonato.
Da dentro hanno aperto.
Miss cotonatura ha provato persino a sorpassarci per le scale mentre si saliva verso l’ufficio, ma è stata trattenuta dall’imbarazzo della figlia (e dallo scatto felino di cui siamo dotati Lorenzo e io, ndr).
Sono entrata e mi sono resa conto che dentro c’erano già due persone.
Il numero che ho preso era
3
La signora cotonata ha borbottato un: “Lo avevo detto, io”.
E si è presa il suo numero 4 guardandomi ancora un volta con odio. Non il silenzioso rimprovero di chi ti dice “Avessimo aspettato te e le tue assurdità avremmo perso dieci minuti” ma vero odio.
Odio perché ho detto una cosa folle e, io sì, di potenziale rimprovero come: “Apre alle sette e mezza ergo non si rompono le palle agli impiegati fino alle sette e mezza”?
Ne ho dedotto che quando gli impiegati sono entrati per accendere tutto, sistemarsi le proprie cose, magari prendere un attimo un caffé prima di aprire al pubblico, si sono ritrovati questi due che li avranno placcati e saranno entrati con loro, uno era già al bancone e lo stavano già servendo, infatti, a portone chiuso.
Sarà che credo in una morale contrattuale, non è che giudichi buoni o cattivi gli italiani che proprio non riescono a mettersi in testa il concetto che il semaforo o gli orari di ufficio esistono per regolamentare meglio la vita di tutti, che insomma regole e leggi esistono per non fare agli altri quello che non vorremmo fatto a noi, che si fa prima se si segue il flusso del traffico invece di ammapparci tutti nell’incrocio pensando di essere più furbi degli altri e supponendo che la nostra fretta è “più fretta” di quella altrui, che si fa prima tutti se si lasciano lavorare gli impiegati aspettando il proprio turno, invece di ammapparsi intorno a loro mentre stanno servendo qualcuno con l’arma laser del:
Ma io devo chiedere solo un’informazione.
A me paiono solo sintomi di una profonda stupidità collettiva, per cui invece del “ve lo meritate Alberto Sordi” di morettiana memoria, a me viene da dire “ce lo meritiamo quel che sta succedendo”, se non siamo capaci di rispetto per gli altri, controllo e rispetto della legalità nemmeno nel nostro piccolo. Accusiamo sistema, governo, politici, potenti, quando nella nostra vita quotidiana non sappiamo fare diversamente del: tanto ognuno fa come cazzo gli pare.
Potremmo inserirlo in un nuovo inno o farne il nostro motto, incidendolo sul fronte di uffici istituzionali, tipo.