Quando sono arrivata in Italia non parlavo una parola d’italiano, e sono presto entrata in prima elementare con pochissimi rudimenti della lingua. Non è una situazione confortevole, pur tuttavia ho imparato presto espressioni come “pur tuttavia” e non me ne sono più liberata.
Pur tuttavia essendo una persona d’indole forte, soprattutto talmente distratta da non soffermarmi mai troppo sui patimenti ché nella vita c’è molto da fare finché si è vivi e tutti interi, ho cercato di non fare un dramma dei miei problemi di comunicazione.
E’ allora che ho imparato che nella maggior parte dei casi sorridere ed annuire mette a proprio agio qualunque interlocutore, tanto alla gente interessa più che altro essere ascoltata o pensare d’esserlo.
Dunque, in quei primi anni di elementari, ero una studentessa modello. Ho ricoperto l’intera foresta amazzonica in forma di carta con “a” minuscole e maiuscole, “b” e così via compresi “y” e “x”.
Ho letto ad alta voce i racconti che la suora mi chiedeva di leggere ignorando i rivoli di sudore lungo la schiena e la lingua felpata, ho fatto di conto senza usare le dita.
Ma avevo spesso dei dubbi, naturalmente. Ero una bambina umile e consapevole dei miei limiti, avevo capito che il resto del mio nuovo mondo era costituito da gente che “sapeva”, “conosceva” cose che io non “sapevo” né “conoscevo”, che lì in quel nuovo pianeta su cui ero stata portata a mia insaputa loro avevano linguaggi comuni, terreni condivisi.
Loro avevano ragione e io torto, se si trattava della nuova lingua che stavo imparando, dei nuovi cibi che andavo assaggiando e di come si cucinassero, degli abiti da indossare in quella minchia di caldo afoso che andavo sperimentando.
Un giorno, dovendo scrivere un dettato, fui folgorata da un dubbio.
La suora ha dettato:
“…. di colore marrone…”
giuro non ricordo a cosa si riferisse e le idee che mi vengono non possono essere pertinenti, comunque c’era questa frase, di colore marrone che non potrò mai dimenticare.
E io ho avuto un dubbio.
Come si scrive marrone?
Incerta, con la mano sinistra ormai saponificata sulla matita, per il momento ho scritto:
marrone.
Ma non ero sicura. Non ero certa.
Prima di consegnare, mente mia cugina nonché compagna di banco andava a dare il suo quaderno alla suora, ho fatto segno alla bimba del banco accanto, ancora seduta (di cui non faccio il nome per questione di privacy, è di una di quelle di cui ho perso le tracce, non vorrei che adesso fosse docente di filologia romanza presso l’Università di Siena e mi facesse causa per diffamazione) e le ho sussurrato:
“Marrone, si scrive così?”
Lei, con l’aria dolce e comprensiva che si assume davanti ad una poveretta senza speranza, mi ha mostrato il suo quaderno e ha sussurrato:
“Ma no, hai sbagliato!”
Aveva scritto:
marrò.
Di corsa, seguendo con lo sguardo i gesti di Suor Anna Eligia che ci chiamava una per una per consegnare il quaderno, con la pressione 250 su 180, ho cancellato l’errore, lo sbaglio.
Cretina cretina cretina, mille volte cretina, ancora non ti metti in testa questa stupida lingua paterna! Sei una nullità! Dicevo dentro di me.
E ho corretto, ho scritto:
marrò.
Così in quel dettato, in cui avrei potuto prendere dieci perché non c’era che UN errore, ho preso otto.
Perché avevo ragione io. Ma non mi sono data fiducia.
Così uno dei momenti più importanti della mia crescita è stato capire che:
E’ VERO CHE NON SI HA SEMPRE RAGIONE MA E’ ANCHE VERO CHE NON SI HA SEMPRE TORTO.