La misantropia della massaia transculturale (per tacer delle arance proibite)

Mia nonna quella siciliana mi ha raccontato, tra le altre cose, della prima volta in cui aprirono un “supermarket” nella sua città. Era una cosa che le donne hanno trovato subito affascinante.  Erano abituate alle bottegucce in cui si erano misurate, concretamente, da quando  non arrivavano al banco pieno di leccornie fino a quando sono diventate loro stesse quelle che si presentavano a ordinare con il borsellino panciuto tra le mani e un filo di perle intorno al collo. Erano abituate al mercato, in cui si andava dritti verso il banco fidato del pesce attraversando folle di altre donne – alcune servette di casa, alcune massaie che andavano a fare la spesa personalmente – si procedeva decise come soldatini tra il brusìo, le urla del venditori, gli scrosci d’acqua delle secchiate lanciate sul pesce per tenerlo brillante e vivo-vivo.

Poi è arrivato il primo supermarket. I supermarket li avevano visti nei film americani. Le attrici, snelle e dal punto vita di quindici centimetri, vi andavano a fare la spesa ancheggiando nello spingere carrelli scintillanti.

Quindi anche mia nonna, insieme alla servetta che viveva in casa sua e altre donne del quartiere, vi entrarono come si entra in una cattedrale.

Non si sa mai come comportarsi, quando si fa qualcosa di nuovo.

Mi raccontava mia nonna che, tra tutti gli scaffali stracolmi di cose – molte delle quali non avevano mai visto prima – ci si confondeva.

Mio padre piccolo voleva tutto ciò che era colorato, che sembrasse americano. Non erano ancora arrivati i cereali, non ci trovavi certo gli hamburger e le patatine dei film, però c’era una certa marca di biscotti, c’erano le gomme americane con i cowboy disegnati sulla confezione.

E’ difficile orientarsi quando arriva qualcosa di nuovo, qualcosa che si identifica con il progresso, con lo sviluppo del mondo.

Prenderla per buona, o prenderla per cattiva?

In seguito poi il mondo si è diviso in chi trova i supermercati degli orridi posti che hanno soppiantato le dolci bottegucce di un tempo, e dopo essersi rimpinzato di roba confezionata e zucchero invertito per anni, ha deciso che il rapporto personale con il bottegaio e le melenzane sott’olio che ti tira fuori da una enorme boccia unta per pesartele su carta oleata, è meglio; chi è rimasto dell’idea che fare la spesa al supermercato è più comodo, pratico e conveniente.

Quando ero piccola io, in Finlandia, si andava a fare la spesa una volta a settimana al supermercato giù in paese. Nonno prendeva la macchina, una giardinetta marrò con decorazioni in legno, un motore che penso abbia contribuito al buco nell’ozono e si andava in questo supermercato dove riempivamo i carrelli di carni già marinate, cereali, patate, carote, molte uova e farina, tonnellate di caffè e via dicendo, in un’ascesa al paradiso che portava verso il reparto caramelle dove ci aspettava la paga in natura per esserci prestati, noi piccoli, a quello sforzo.

La vera festa però era quando nonna mi regalava un’arancia. La frutta la si comprava con il leasing, quando ero piccola io, in Finlandia, nel lontano 1886. Quindi il regalo dei regali, quello che di solito per i bambini è il dolce, per me lo era la frutta, le arance soprattutto.

Poi arrivo in Sicilia.

Vabbè, lì le arance me le tiravano in faccia e quindi anche quella passione è diventata normalità. Ma il tema qui è un altro.

La spesa.

Mia madre viene istruita tra i banchi del mercato e qualche botteguccia di fiducia dei suoi suoceri, ma in pochi giorni, da nordica qual è, si è detta che la faccenda della spesa per come le veniva proposta dalla famiglia di papà era molto complicata.

Ha trovato una Standa a qualche centinaio di metri da casa-nuova e noi si andava alla Standa.

Bene.

Non sono mai stata una grande massaia, una volta che sono andata via di casa, mi ci sono applicata solo da qualche anno.

Lorenzo, il mio consorte, qualche mese fa mi dice:

“Cara, ma perché tu vai sempre alla Coop o alla Conad a fare la spesa? Noi abbiamo un comodo e bel mercato qui a pochi passi.”

E’ vero. Qui a pochi passi c’è

UN MERCATO.

Inizialmente ho ignorato questa rivelazione. Ogni cellula celebrale coinvolta nell’inconscio ha fatto sì che quando toccava a me rifornire di viveri la dispensa, mi venisse da fare la spesa quando il mercato era chiuso, che mi dicessi – e soprattutto dicessi a Lorenzo – che quel di cui avevo bisogno al mercato non c’è.

Questo metodico rifiuto mi ha spinto, alla fine, a cercare di capire perché le mie zampette mi portino sempre lontano, più lontano possibile,  dal mercato rionale quando devo comprare del cibo.

E al mercato ci stanno pure i banchi che vendono detersivi, prodotti per l’igiene, quello che vuoi, ma io NO, non ci vado.

E sempre pescando tra le bisacce dell’inconscio, ho capito.

Non volevo andare al mercato per due ragioni precise: una, nostalgica: io da piccola che corro tra gli scaffali del supermarket finnico in quella festa gioiosa che era la spesa settimanale.

Ma soprattutto: due. La stessa ragione per cui mia madre ha deciso di andare alla Standa piuttosto che al mercato, al quale infatti andava solo papà, e io ce lo accompagnavo tenendogli la mano tutto il tempo. Tenendogli la mano a disagio e con molta fretta di tornare a casa.

Perché:

al mercato devi parlare con LA GENTE.

Devi COMUNICARE.

Mia nonna, quella siciliana, dopo aver scoperto il supermarket come grande novità all’amerricana per fare la spesa, dopo aver caracollato spingendo il carrello e immaginandosi come Doris Day, alla fine è tornata al mercato e alle bottegucce di fiducia a cui aveva poi tentato di orientare la nuora finlandese, accompagnando l’invito con queste parole: “E’ più umano, sono come di famiglia, ci vogliono bene, ti puoi fidare”.

E io ho capito, qualche mese fa, che del mercato e della botteguccia a me fa TERRORE il fatto che con quelli ci devo parlare, che qua rischio che ci faccio amicizia, che mi conoscano, che io li conosca.

Mi sono resa conto di quanto abbia desiderato ardentemente in vita mia che persino al supermercato non ci fossero persone a  passarmi il pesce – l’unico banco in cui non puoi prenderti da sola quel che ti serve, già il loro “glielo pulisco?” mi è sempre sembrata una profanazione alla mia privacy – ho sempre sognato che ci fossero delle casse automatiche come quella splendida idea applicata all’ikea: poggio la roba e un oggetto inanimato mi fa pagare.

No, dico: perché ci sono cassiere che ti parlano, a volte, eh?

In generale nel mio mondo ideale non ci sarebbero commesse nei negozi di vestiti, quelle che ti accolgono con il loro nefasto possoaiutarla che ha l’effetto dell’ipnosi sotto cui gli alieni tengono gli umani incatenati sotto terra in Aliens vs Cowboys, in generale ho sempre sognato che tutto ciò che devo acquistare lo si potesse prendere da dei banchi asettici, senza dover avere rapporti umani.

Tutto ciò è agghiacciante, mi sono detta.

E così sono andata al mercato.

Nelle mie spedizioni al mercato, finora, ho speso somme esagerate perché mi faccio sbolognare qualunque cosa. Non so: mi avvicino timida ad un banco perché mi serve un ciuffo di basilico e vado via avendo speso mille euro di verdure da sfamare un intero collegio vegano.

Voglio due fettine di pesce spada, torno con l’animale intero in spalla perché il pescivendolo mi ha convinto che posso congelare la parte che non mangio subito.

Oppure con una ventina di chili di arance.

Ma quella me le sono prese davvero da me.  Sotto lo sguardo amichevole e compiaciuto di una signora con il grembiulino a fiori, che minaccia di dirmi come si chiama.

supermarket

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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