Avevamo un appuntamento al Festival di Venezia, ma Lorenzo ed io abbiamo deciso di andarci un giorno prima. Non al Lido, a Venezia.
Mi faceva un po’ fatica, quest’anno, andare al Festival e sì che era per un incontro che avevo tanto voluto e quindi una piccola cosa che si realizzava.
Andare al Festival di Venezia significa quasi sempre precipitarsi al Lido, fare vasche e vasche a piedi, passare tra il tourbillon di addetti stampa, giornalisti, cinephiles, registi, attricette che si cambiano nei bagni degli Hotel in cui si intrufolano di soppiatto prima delle proiezioni scambiando jeans e ballerine con abiti lunghi e tacco dodici. E poi curiosi, turisti, ragazzini che si appostano sul carpet. Significa pagare tanto un panino tiepido e un’acqua piccola gelida; salutare, non salutare di proposito, guardare fissi davanti a sé con l’accredito che dondola come il campanello di un appestato o di un pifferaio magico, a seconda di come la tua carriera stia andando in quel momento.
Ogni anno al Festival si commemora chi ci abbia lasciato le penne nel frattempo, si saluta un nuovo regista, si spettegola sugli ultimi ritocchini che si è fatta la tal attrice d’età.
Qualcosa mi sfugge sempre più, non del lavoro che faccio e che amo, piuttosto qualcosa di indefinito che ha a che fare con tutto ciò che c’è intorno, tutto ciò che il cinema comporta. Un cinismo e una stanchezza che non mi appartengono e speravo quindi di scacciare queste indefinite sensazioni passando per una città che amo ma non mi prendo mai il tempo di visitare in pace.
Per prepararsi a tutto questo ci pareva quindi una bella idea goderci Venezia, un po’ di reale bellezza, una vacanza formato spot.
Girovagavamo tra le stradine strette, i palazzi incredibili, le facciate che sembrano inventate da uno scenografo in stato di grazia e, quando eravamo ormai felicemente e volutamente persi, siamo passati attraverso un sottoportego per ritrovarci improvvisamente a San Marco.
Turisti e piccioni che si contendono la piazza, ragazzi indiani che vendono gli oggetti più strani e incongrui, arrivo al centro dell’agoforabica spianata e fisso il campanile che mi è sempre sembrato troppo leggero per essere così alto.
Sono abbastanza sicura che sia di cartapesta.
In fondo tutta Venezia non è che una scenografia. Non può essere reale.
Alla fine il nostro sguardo casca su un elemento perturbante:
un piccione morto.
Ma non semplicemente morto. Fracassato, fatto a pezzi, esploso.
Il suo corpo stava lì silenzioso, stupito e senza vita mentre la vita gli scorreva tutta intorno.
I bambini, che intanto inseguivano i suoi compagni ancora animati e a caccia di briciole, non lo degnavano più che di uno sguardo curioso. Gli adulti voltavano la faccia schifati.
Chissà perché ci ostiniamo a pensare che ai bambini viscere e morte facciano impressione: i bambini sono avidi di tutto ciò che a noi adulti fa paura. Mica ci pensano, alla morte, loro.
Ci siamo guardati intorno invocando uno spazzino, qualcuno che portasse via quel poveretto a cui attribuivamo bisogno di pietà e degna sepoltura.
Prima di volare verso le successive esplorazioni da turista l’ho fissato per almeno cinque minuti pensando a cosa potesse essergli accaduto.
Un animale che lo aveva aggredito? Qualcosa lo aveva schiacciato?
Povera bestiolina spiaccicata in una posizione che rendeva persino difficile capire come fosse messo, le persone non se ne curavano e per gli altri piccioni quella sua morte non significava assolutamente niente.
Non era successo niente, per nessuno.
Alla fine, commentando con frasi solenni l’orrore dell’umana indifferenza, siamo andati via.
Abbiamo deciso di cenare in un bel posticino per cui però c’era da aspettare, in attesa del nostro turno ci siamo seduti sulla scalinata che dava direttamente dentro un canale, ci ormeggiavano le gondole, lì. Arrivavano una ad una lentamente, strane cose antiche prese d’assalto da turisti perlopiù giapponesi o americani.
Dopo mangiato siamo tornati a piazza San Marco per vederla di notte.
L’orchestrina del bar stava intonando un tango, la piazza sembrava ancora più grande e il cielo era puntinato di lucine azzurre che salivano e scendevano: gli indiani adesso vendevano dei giocattolini luminosi che prendono il volo con un tiro di fionda.
Due bambini di colore, una bimba con i capelli tutte treccine e presumibilmente il fratello, un ragazzino un po’ più grande, avevano avuto la loro lucciola blu personale e la facevano volare. Tutto era solo voci umane e sciabordio d’acqua.
Il quartetto d’archi era così romantico ed antico che ci è venuto di camminare sottobraccio, eravamo in perfetta sintonia con la gente in piazza che era spensierata e felice.
Alcune turiste goffe tentavano di simulare dei passi di tango, una coppia giovane e bellissima camminava lentamente e si guardava come si guarda un’opera d’arte, mi hanno fatto pensare quanto effettivamente sia facile innamorarsi in una città come Venezia.
Poi, mi sono ricordata.
Sarà ancora lì?
Era ancora lì. Spiaccicato, nella stessa posizione, al buio.
Solo. Solissimo.
La sera a Piazza San Marco non ci sono più i piccioni. Solo gente.
Lui era lì solo, morto, nessuno lo guardava nemmeno. D’altronde i bambini erano tutti presi dalle lucciole azzurre.
Sono rimasta a fissarlo per un altro po’ pensando a come lo si sarebbe potuto portare via.
Lucciole azzurre, gente che ballava, la musica, noi due come due stronzi a fissare un piccione morto. Forse, mi sono detta, la ragione per cui nonostante tutto faccio cinema e amo il cinema c’entra con il fatto che sto dando tanto peso e sto male per questa specie di topo con le ali spiaccicato sul selciato.
Chissà perché me la prendo poi tanto.
La mattina dopo, alla fine, siamo andati al Lido per fare il nostro dovere, raggiungere il nostro ambiente di lavoro, mostrarci pronti a sorridere, non sorridere, salutare, parlare dei nostri progetti, ciondolare con l’accredito che tintinna.
Però quando sono arrivata al Lido all’inizio mi pareva non ci fosse nessuno. Ci ho messo un po’ a rendermi conto che c’eravamo tutti, come al solito.
Soltanto che ci eravamo trasformati in allegri, spensierati, inconsapevoli piccioni.