Ci sono una serie di ragioni, forse infinite, per cui provo gratitudine. Ce ne sono anche alcune per cui di tanto in tanto mi arrabbio come una serpe a cui hanno schiacciato la coda con un tacco stiletto dodici, quelle faccende inspiegabili e irragionevoli che chiamiamo “ingiustizie mistiche” quando non otteniamo quel che vogliamo o non abbiamo quel che vorremmo, ma di base c’è un Primo Motore Immobile da cui nascono una serie di orientamenti intimi che mi hanno finora fatto da falsariga morale, per cui sono veramente grata.
Il Primo Motore Immobile sta nella mia famiglia, che pur essendo un sarchiapone variegatissimo dall’estremo Nord all’estremo Sud dell’Europa, ha stranamente alcuni punti di contatto (o forse non è strano, i miei genitori probabilmente non si sarebbero innamorati se non perché in qualche modo simili e se si è simili è facile che si abbia qualcosa di affine nel background).
Una delle cose che serpeggia molto nella gente che ha contribuito al mio imprinting è il senso dell’umorismo, o meglio l’ironia come arma di un’anima zen.
A volte non me ne rendo conto perché, appunto, a me pare naturale sdrammatizzare, mi pare naturale pretendere da me stessa di ridere almeno una volta al giorno. Mi pare naturale che, anche nei momenti più drammatici, si guardi il mondo e quel che ti accade da un punto talmente lontano dell’Universo che ogni cosa appare piccola, non insignificativamente piccola, ma pesantemente piccola.
Una volta scrivevo qui della propensione alla felicità. Forse l’apparente distacco, a volte da alcuni interpretato persino come cinismo, di chi non riesca a prescindere dall’aspetto comico che a volte hanno persino le situazioni dolorose, ha qualcosa a che fare con l’ostinazione di resistere ai colpi della vita con una risata. O anche avere il senso delle proporzioni di quel che ci preoccupa.
O comunque, questo orientamento intimo fa sì che, di fatto, non ti annoi mai.
Le persone a cui ho sentito dire “mi annoio”, sono in effetti persone che non capirebbero mai la faccenda dell’aragosta in Io e Annie e chiedono “scusa non ho capito, hai detto che hai smesso di fumare sessant’anni fa, ma se hai quaranta anni.”
Quelli che pensano sempre che tutto sia cupo, drammaticissimo, importante. Come se fare una battuta o alleggerire un momento significhi non ritenere importante qualcosa.
Tornando al mio imprinting familiare, chi mi conosce sa che in senso stretto non è che io venga da una situazione comodissima e di sicuro di peripezie per rendere intrigante la sceneggiatura, gli dèi ce ne hanno mandate tante. Però, per l’appunto, sembra pazzesco ma mio padre riusciva a farmi ridere persino dal letto d’ospedale.
Paradossalmente, in quei giorni dolorosissimi io e la mia più cara cugina, per reagire allo stress, eravamo diventate meglio di un duo comico, nelle lunghe telefonate che mi faceva da lontano perché addolorata e perché non abbiamo mai mancato di starci vicino quando serve.
L’ironia è un mezzo che mi è stato insegnato anche per dire agli altri cose che dette diversamente potrebbero sembrare un rimprovero.
Ma alle volte mi pietrifica scoprire che la maggior parte della gente non sa ridere.
Lasciamo perdere l’aspetto professionale del “far ridere” e quanti combattano con la platea raggelata e le espressioni tetre da cui si intuisce che la battuta non è arrivata – non c’è niente di più difficile che farne un mestiere – no, parlo del fatto che la gente ride poco, ride tesa, ride per finta, ride triste. Ride male.
Da qualche tempo ho iniziato quindi questa nuova e attenta osservazione:
Come ride la gente.
Di cosa ride, perché ride. Come reagisce al fatto che tu invece che dire: “sei pesante/sei un accollo/mi stai disturbando”, piuttosto che essere maleducato, fai una battuta (non capisce, anzi ti dice: “scusa, ma ti stavo dicendo una cosa seria”). Come reagisce la gente se tenti di alleggerire una situazione pesante tentando di vederne e mostrarne quell’aspetto tragicomico che rende più leggero il cuore (ti dice “scusa, ma ti pare il caso?”). Come reagisce se tu invece di dirgli direttamente: “ti stai rendendo ridicolo” fai una battuta magari verso te stesso pur di salvare l’altro (ti dice “scusa, ma stavo raccontando solo per la centoduesima volta di questo mio gravissimo problema”).
Mi spiace.
C’è un sacco di gente che non sa ridere, non conosce il meccanismo dell’ironia, si sente aggredita da una modalità che, invece, è quasi sempre generosa – finchè non si offende, ovvio – e soprattutto vive sempre in una specie di trincea che li annoia e che annoia, del “tutto è politicamente corretto, io sono impegnatissimo, il riso abbonda sulla bocca degli stolti e io, che sono una persona seria, intellettuale, non è che sto qua a cazzeggiare”.
Di fatto, osservando la gente ho imparato finora che non sanno ridere: le persone molto molto stupide, o quelle molto molto prese da se stesse, la maggior parte degli pseudo intellettuali e la maggior parte dei politici. (decidete voi quali categorie potrebbero assimilarsi l’un l’altra. ndb)
Prendere a pretesto i tempi duri è infantile: non parlo solo per la mia esperienza personale, ma sappiamo tutti che proprio i momenti oggettivamente più drammatici della Storia hanno visto dei geni dell’ironia che hanno persino salvato la propria e altrui vita con questo dono geniale.
Non per caso uno dei primi libri che mi ha fatto leggere mio padre dopo Qua l’ochetta biricchina passando per Verne e Salgari è stato il Diario Clandestino che Guareschi scrisse nel campo di concentramento di Sandbostel.
Sì, forse è stato prematuro e per qualche momento ho pensato che i campi di concentramento fossero posti inventati da autori folli che immaginavano mondi sommersi e posti dove non facevano mangiare la gente. Che assurdità.
Pur sempre meglio del “Martin Eden” che mi ha regalato mia madre a undici anni perché era dello stesso autore del da me amatissimo “Zanna Bianca”.
Ancora penso a quel poveraccio di scrittore che si suicida annegandosi e provo lo stesso incredulo sgomento di quando ho chiuso il libro. (senza contare le pagine lette aspettando con ansia che comparisse un cane, un lupo, una volpe, un dolce orso che Martin avrebbe salvato da una tagliola).
Parlavo quindi di gratitudine. Di tutto si deve essere grati. Anche i libri dati in lettura precocemente hanno avuto un loro indubbio valore. Tipo, visto il mestiere che faccio, quando non sono in pace con quel che accade nel mio ambiente, sto lontano dalle spiagge.
Dunque, oggi riflettevo invece su quanto sia grata di questo dono della mia composita grande famiglia, quello per cui da piccola mi sentivo confortata e al sicuro persino se ci avessero staccato la luce, grazie ai miei grandiosi genitori e alle battute di mio padre che un dialoghista per un qualunque Arma letale avrebbe assoldato subito, o alle freddure di mia nonna, che per dirti ti amo giocava a dirti cose orrende. (magari mi ha sempre odiato moltissimo e io daje a ride a ogni battuta.)
Ovviamente tendiamo tutti a cercarci tra simili e quindi, dato che la mia cerchia ristretta di amici ha questa caratteristica di base, alle volte mi spiazza quando mi rendo conto che, appunto, non è naturale né normale.
Ho visto cose davvero spaventose, tipo gente che aggredisce e fa la ramanzina a qualcuno che parla per paradosso come se quello parlasse sul serio, persone che non capiscono la battuta a livelli quasi patologici con l’altro che tenta di spiegargliela.
O anche chi pensa che chi ha questo filtro zen per guardare il mondo non prenda mai nulla sul serio o non abbia le sue malinconie. Saper ridere o comunque una visione ironica della vita a volte viene scambiata persino per cattiveria, mentre non c’è persona più generosa e intelligente di quella che scompone il mondo e lo ricompone per gli altri come un prestigiatore che distrae un bambino che ha sbattuto la testa cadendo.
Per fortuna dentro non c’era niente. (mi diceva mia nonna se piangevo)
P.S. se qualcuno non avesse letto Martin Eden, mi scuso per lo spoiler. Comunque lui si uccide.