cercatori di lavoro (addendum al fenomeno del “non risponditore giammai richiamatore”)

Tempo fa ho scritto un post su un argomento che trova sicuramente sponda in tutti noi, per “noi” intendo anche e soprattutto chi svolge una libera professione, quelli che in ogni settore si definiscono a volte frilèns, i più temerari artisti, i più realistici precari per eccellenza.

Il post suddetto (questo) parlava di quanto sia difficile ottenere uno straccio di rispetto in questo Paese e di quello strano fenomeno tutto italico del “non risponditore giammai richiamatore”.

Sinossi di quel post: da noi sfugge il concetto che a tutti livelli e in tutti i settori ci sono persone il cui lavoro (non a caso scrivo questo post il primo maggio…) è cercare lavoro, proporre, proporsi e/ma che il lavoro del loro interlocutore sarebbe in teoria risponderti, possibilmente incontrarti, valutarti e – in base al merito – scegliere o no se servirsi di te e/o quel che fai.

Molto semplice.

Stringo il fuoco su quello di cui mi occupo. Nel mio settore si muovono vari branchi tra loro interconnessi: scrittori che si propongono a registi oppure direttamente a produttori. Attori che si propongono a registi oppure direttamente produttori, raramente a scrittori. Produttori che si propongono a finanziatori, pubblici (pochi) privati (quasi non pervenuti).

Insomma è una danza spesso frenetica tra interlocutori disposti più o meno gerarchicamente, i ruoli a volte si invertono, tipo attore che diventa famoso e quindi è il regista o il produttore che cerca lui, poi magari il regista diventa famoso e l’attore che prima lo aveva sfanculato ma che ora è un po’ meno famoso cerca il regista, o anche produttore che prima era indipendente e nessuno lo cagava né lo cercava, che diventa più importante e allora tutti lo cercano etc etc.

Una frenetica danza.

Ma quello che appunto connota il nostro Paese e le sue regole non scritte è che chi ha la forchetta dalla parte del manico – chi vuole indovini perché non parlo di coltello – non risponde manco per dirti “crepa” se lo cerchi.

Quel post l’ho scritto perché la mia riflessione nasceva dallo stupore per un fatto: molte persone che nel tempo mi hanno contattato per propormi di collaborare (scrittori o attori, o aspiranti registi che volessero fare esperienza) mi hanno sempre detto di aver ricevuto la mia risposta con grande sorpresa, ricordandomi che in effetti il mio comportamento è stravagante: io rispondo sempre.

Non sono né famosa né chissà che, ma quando qualcuno che mi ha “trovato” perché sa che faccio la regista e, come a me, scrive – come è giusto che sia  – ad altri trecento registi, anche quando sto effettivamente lavorando e non avrei tempo per grattarmi la testa, rispondo sempre e vedo se posso essere utile.

Sarà che credo nel karma e non faccio agli altri quello che non vorrei fosse fatto a me, sarà che sono coerente con quello che dico (o almeno ci provo) insomma, io rispondo.

Ma volevo a questo punto aggiungere un addendum – nello stile di Fabrizio Barca – che è forse più importante di quel post stesso ed è una riflessione sul come a volte ci si pone.

Ho un problema con i depressi (nel senso dell’atteggiamento, non della malattia, ovvio)  e i disfattisti, questo si sa.

Sarà che ho una soglia della pazienza e della considerazione di tutto ciò che potrebbe racchiudersi sotto la parola “dramma” un po’ altine, però personalmente mi tengo a bada e il mio Voight Kampff del vittimismo è sempre acceso.

E’ una mia idea, anche se sono in buona compagnia, che essere adulti non significhi diventare cinici, ma avere il senso delle proporzioni sì. Per me essere adulti (condizione che ti consente anche di tenerti dentro le cose più belle dell’essere bambini e quindi di giocare) significa uscire dal proprio egocentrismo, avere netto e definito il concetto del far parte di un tutto che è l’umanità. In questo tutto composto di sette miliardi di persone ci sono miliardi di esigenze, miliardi di problemi e miliardi di soddisfazioni.

E’ vero che ogni cosa è soggettiva, ma se scegliamo di fare questo mestiere è anche perché – in teoria – siamo disposti ad assumerci l’enorme rischio di non limitare tutto alla nostra soggettività.

Se cinque persone sono chiuse in un ascensore e una c’ha l’asma, l’altra è vecchia e fatica a stare in piedi, una è una mamma e l’ultimo il suo neonato che deve fare la sua poppata e io devo fare pipì, se sono un ragazzino egoista il mio dover far pipì è IL dramma che travalica qualunque tragedia della vita, figuriamoci le stupide esigenze dei miei compagni in ascensore, che crepi pure l’asmatico, muoia il vecchiaccio e se quel bambino non la pianta di strillare lo soffoco perché da’ fastidio a me; se, al contrario sono una persona adulta e armonizzata col resto del mondo capisco perfettamente che, quando arriveranno i soccorsi, la prima persona che avrà diritto è l’asmatico, e finchè i soccorsi non arrivano è ovvio che mi preoccupo per lui e per la persona anziana. Magari so anche che il bambino ha fame ma può aspettare, quindi il problema è meno grave (e certo non mi lamenterò per il suo pianto), ma di una cosa sono assolutamente certa: è vero che mi sta scoppiando la vescica ma non è un dramma. E’ un fastidio ma meno problematico di uno che rischia di morire soffocato.

Direte: ovvio.

E no.

Se sto scrivendo questo post è perché osservo spesso che non è ovvio per niente. Siamo circondati da gente per cui il proprio dolorino al piede dovrebbe, a detta del dolente, attirare la contrita attenzione di tutti molto più di quello che sta rantolando nell’angolo con il sangue alla bocca e il rantolante, anzi, viene accusato di rovinargli l’umore.

Quando si tratta di noi che lavoriamo nel settore dello spettacolo e/o della cultura, la cosa la sento ancora più insopportabile, e non solo per la mia personale idea di una professione “al servizio” dei fruitori (è una posizione tra altre possibili) e nemmeno – sia mai – perché penso anche solo minimamente essere vera l’affermazione di certi detrattori per cui sarebbe questo un settore “meno utile” se non “inutile” (togli intrattenimento e bellezza alla gente, soprattutto quando si è in un periodo particolarmente sotto pressione, e vedi che succede) ma perché in teoria dovremmo essere più osservatori di noi stessi e degli altri e quindi più consapevoli dei funzionamenti dell’animo umano, consapevoli delle priorità e delle proporzioni, per mestiere.

Ecco perché, anche quando parlo del mio lavoro e di quanto complicata e sì, diciamo per comodità “drammatica”, sia la condizione del mio settore in questo momento di crisi, e so bene quanto personalmente sia complicata e alcuni definirebbero drammatica la situazione professionale mia o di quelli che conosco, non riesco, proprio non riesco a farla – appunto – drammatica.

Sono anni che ci combatto anche politicamente: so quanta ingiustizia, quante storture scandalose e quanto immeritocratico sia il mio settore, ma anche lì: si fa la propria parte perché siano cambiate le regole, reinventate le leggi che regolano il Sistema, ma sinceramente mi vergognerei se questo diventasse più di una democratica e sacrosanta indignazione.

Ho marciato in piazza, fatto picchetti davanti a Montecitorio per protestare contro l’ottusità dell’allora ministro Bondi, occupato la Casa del Cinema e il red carpet del Festival di Roma per fare sentire la mia voce,  perché – per l’appunto – chi di mestiere avrebbe dovuto essere il nostro interlocutore non rispondeva e non richiamava.

Ma non mi sono mai lasciata prendere la mano nel senso del perdere di vista la misura delle cose.

Tutto questo per dire che, pur rispondendo sempre, a volte quando qualcuno mi scrive, oppure mi capita di leggere in giro le posizioni di chi, nel mio settore, cerca interlocuzione con i suoi referenti, c’è una cosa che mi suona male, ri-PREMESSO che:

a) trovo che come si pone la maggioranza di quelli il cui lavoro sarebbe rispondere, giudicare e scegliere, sia vergognoso e irrispettoso

b) so benissimo che in questo Paese c’è una enorme disfunzionalità della selezione, e quasi mai vince chi ha più merito

trovo però stucchevole e involontariamente complice della mancanza di rispetto verso il lavoratore precario, l’esplicitare nella ricerca di contatto cose come:

– “Non lavoro perché tanto in questo Paese, si sa, chi merita non lavora, si sa chi sono e perché quelli che lavorano/ qui lavorano solo i raccomandati e quelle che…” o generiche tirate contro il Sistema Italiano,  che fa tanto chiacchiericcio da cortile e ricerca di complicità nel pettegolezzo.

-“So che non risponderà…tanto non mi risponde mai nessuno…” che fa un po’ troppo penoso, e il tono di quello che se non rispondi si impiccherà come il fidanzato di Milk da’ ogni impressione tranne che quella professionale.

O anche – fatti reali, giuro – ti chiedono il tuo parere su una cosa che hanno fatto e se tu fai una critica:

“Professionisti di primissimo livello hanno visionato questa mia cosa e al contrario di lei mi hanno detto che…” ma allora che me lo chiedi a fare?

Il Lavoro, per noi che scegliamo il più aleatorio possibile, è sempre stato un viaggio, quando in zattera quando sullo yatch, per poi magari tornare sulla zattera, tra un’isoletta e l’altra. L’idea per cui la felicità è un concetto tremendamente oscillante è l’unica idea possibile di felicità soprattutto per noi.

Quando lavori sei felice, ma non solo e non tanto perché guadagni, sei felice perché ti senti parte integrante della società e ci hanno messo in testa che se lavori, solo allora sei “utile” e “produttivo”. tempi_moderni

In realtà il nostro diritto ad esistere non è legato alla nostra necessità nel mondo, ci siamo e abbiamo diritto di esserci. Essendo poi animali sociali, più che un dovere è un diritto anche trovare un nostro posto da cui partecipare, realizzarci e trovare soddisfazione.

Tutto questo è pacifico.

Scegliere di lavorare nell’industria dello spettacolo e/o nella cultura è una scelta difficile di per sé, in questo costante confronto con la presunta idea della nostra “utilità”, perché chi fa finta di credere che potrebbe esistere una vita umana senza cultura e senza intrattenimento, periodicamente tira fuori la leggenda della nostra inutilità, debolezza, capricciosità, esseri fragili dalla vita privilegiata e via discorrendo.

Però io penso che un punto assolutamente fermo della parte che noi dobbiamo fare per non dare guazza alla mancanza di rispetto del nostro ruolo e della nostra scelta dovrebbe essere quello di non “piagnucolare”.

Nel mio precedente post ho parlato della rabbia e quanto a me sembri un sentimento solo distruttivo, mentre l’indignazione la trovo la sua alternativa costruttiva.

Ugualmente secondo me le alternative al vittimismo e alla tendenza al melodramma da cui potremmo essere tentati quando siamo stanchi e stufi della giungla complicata in cui siamo costretti a muoverci, sono l’autoironia – rifugio, fonte di ispirazione e sopravvivenza psicologica – ma soprattutto  la schiena dritta.

Tempo fa, in un momento di impasse, mi sfogavo facendo di piccoli video casalinghi, fatti con il cellulare (detti “videetti”) che per me erano come delle strisce satiriche sulla mia condizione di regista indipendente. Sentivo forte intorno a me lo stesso disagio e quindi ho deciso di “scherzarci su”. Soprattutto in risposta al citato Bondi e ancor più di lui l’allora ministro Brunetta che per l’appunto davano a tutti gli operatori del settore del “privilegiato”, mostrando d’essere lontani anni luce dalla realtà dell’industria in cui lavoriamo. Non ci si “scherza su” per dire che la faccenda non è seria, ma per non soffrirci e per trovare una distanza più realistica tra sé e il problema.

Chi soffre, va da sé, non trova soluzioni.

Il più popolare è stato questo.

Mi sono sempre rifiutata di “soffrire” per la difficoltà, per le ingiustizie a cui ho assistito, per un sistema che non trovavo corretto etc.

L’ho già detto, fin da quando ero una ragazzina quando qualcosa non mi piace faccio quel che posso per modificarla e per contribuire a migliorare le regole (si tratti della scuola, l’università, il mio condominio) ma mi sono sempre rifiutata di farmi rovinare la vita. La vita, almeno quella che ricordiamo, è una, ed essere contenti e cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno, oppure stare male per tutto è una nostra scelta.

Una soluzione per rigirare qualcosa che ci fa soffrire – certo, quando non si tratta di VERE tragedie (morte, malattia, incidenti invalidanti, invasione degli zombies e conseguente crollo della società conosciuta, radiazioni post atomiche, per dire) – è cercare di trasformarla in qualcosa che faccia ridere, prendersi in giro, non c’è niente di più forte di quel che viene detto da chi si autocritica per primo prendendosi in giro da solo. Cosa che da noi purtroppo sempre meno gente sa fare,  criticare gli altri sì, è sport nazionale, l’autoironia e l’autocritica sono in costante estinzione.

E secondo poi, appunto, la schiena dritta.

Se per primi diamo per scontato che siamo meritevoli di tutto il rispetto di questo mondo, anche quando abbiamo ricevuto mille “no” e mille porte in faccia, anche e soprattutto quando di fronte a noi c’è qualcuno che pensiamo che valga poco, che non sia adatto a quella poltrona etc, o per quanto possiamo averne “bisogno”, bene, se vogliamo essere rispettati chiedere lavoro è anche il nostro lavoro e non dovremmo mai circondare questa legittima iniziativa di “se” “ma”, excusatio, sottesi rimproveri, analisi sociologiche, gossip e lamentele.

Al di là del fatto che proprio noi che – scrivendo, catturando immagini, recitando e in vario modo collaborando – vogliamo raccontare le storie della gente, dovremmo anche avere sempre presente, nella valutazione del mondo, chi effettivamente abbia il problema più grave di quelli chiusi con noi nell’ascensore bloccato.

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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