Considerando che siamo sette miliardi di persone e che, facendo i debiti calcoli dei sei gradi di separazione, per necessità o per scelta anche la più misantropa delle creature umane si ritrova ad avere a che fare con almeno un centinaio di consimili in un anno, e considerando che con la diffusione del mondo virale e i social network questo numero aumenta in modo esponenziale, un essere umano di natura paziente e tendente all’ascolto, a un certo punto della sua vita un minimo di selezione la dovrà pur fare.
Dico, per sopravvivere.
Ci crescono con l’idea che si debba aver pazienza e sopportare chiunque.
In passato ho già parlato, infatti, delle ragioni per cui non mi piace il termine “tolleranza”: non è che io una persona diversa da me per genere, ceto sociale, razza o religione la “tollero” o loro “tollerino” me, tollerare è un termine che viene troppo spesso usato come sinonimo di sopportare. Ci mancherebbe pure che io sopportassi chi, va da sé, ha i miei stessi diritti e doveri nello stare al mondo.
Sopportare è un’altra cosa, riguarda il quotidiano.
Sopporti uno che ti sta serenamente, decisamente, ufficialmente sulle palle. Sopporti uno che dice delle cose idiote, qualunquiste su cui il punto non è che siano cose vere o false.
Il termine è un altro e andrò presto a chiarirlo.
Quando vai a scuola e racconti ai tuoi genitori di quel dato compagno che vorresti prendere a sediate, i tuoi ti insegnano che devi essere superiore e sopportare.
Poi cresci e prosegui a distribuire impunemente pazienza.
Finché un bel giorno hai una grande illuminazione: ti rendi conto che di fatto dobbiamo sopportare quelli che dobbiamo sopportare.
Non è vero che dobbiamo per forza condividere la nostra vita con qualcuno che ci sta sulle palle, se non è necessario.
Ci sono legami cui sei costretto, anche dolcemente costretto, nella vita. Parenti, colleghi di lavoro che condividono la tua stanza, i tuoi condomini.
Siccome non è elegante e non porta in alcun altro posto fuor che la galera il far fuori un vicino petulante o una collega dispettosa, ti metti in modalità di sopportazione e cerchi di vivere la tua vita e sorridere educatamente con un sorriso tirato e orizzontale davanti alla persona della catena di relazioni in modalità sopportazione cui sei costretto in vita tua, nonostante dentro di te ci sia un omino che urla: “Nnooooooo, non posso credere a quel che hai detto, noooooooo!!!”.
Negli anni impari le faccette e gli intercalare utili quando sei in modalità sopportazione.
“Ah, ma dai!” “Ah-ha” “Certo”.
Per abitudine e quella tua buona educazione da condizionamento pavloviano, però, vai in modalità sopportazione quando sei davanti a qualcuno che non conosci e magari non vedrai mai più, ma te lo trovi davanti a te sul treno, ci incappi in un molesto commento su facebook, e lo tratti come quelli della modalità sopportazione della tua vita. Ricordiamo: gente con cui sei costretto ad avere a che fare, non sparirà, non si allontanerà dalla tua esistenza come lacrime nella pioggia, no. Fa (purtroppo) parte della tua vita ma non vi piacete, o anche solo non piace a te, non avete niente in comune, siete in disaccordo su qualunque cosa e che consideri quindi senza speranza e con cui, in teoria, è estremamente saggio non provare nemmeno lontanamente a interloquire davvero, tipo aprire una discussione, dare spago, dire “non sono d’accordo”. Ma perché metterti a discutere in ascensore con il vicino che si esalta parlando di Berlusconi e ne decanta la mascolinità nel commentare il processo Ruby? Negli anni hai imparato che questo significherebbe solo rappresaglie contro il tuo cane che verrà accusato di pisciare sui pianerottoli di tutti i piani (anche se tu abiti al pianterreno). Insomma invecchiando capisci che il proverbio di nonna “chi nasce tondo non muore quadro” un suo fondamento ce l’ha.
MA, per l’appunto, mi sono resa conto ultimamente che quello che incontri casualmente nella vita NON corrisponde a uno con cui sei COSTRETTO ad avere a che fare.
Sono onde anomale di pazienza sprecata.
Come dicevo nell’ incipit, uno un po’ di selezione la si deve pur fare, bisogna pur prendere delle decisioni.
E siccome non categorizzo per mia stessa indole, penso che esistano le singole persone, so che ci sono singole persone con cui non è proprio necessario che io abbia a che fare, ed essendo che le categorizzazioni dell’umanità in base a razza, genere, ceto sociale, religione, gusti sessuali sono una evidente minchiata, ne ho creata una universale e nello stesso tempo soggettivissima, trasversale, agile e facile da usare, scevra da effetti collaterali tipo senso di colpa:
EVITO CHI DICE CAZZATE
E’ quella la parola chiave, non cose giuste o sbagliate, ma quelle che io trovo delle cazzate.
[ “Cazzate” (Cat-sate) : concetti nel migliore dei casi qualunquisti, quando non cattivi, razzisti, ego-riferiti, infarciti di frasi fatte o aneddoti leggendari piegati a proprio uso e consumo, spesso paragoni impropri. Anche: espressione di credenze non personali ma per adesione alla prima frase ad effetto del primo incantatore che passa. Vedi anche “Cazzaro” (Cats-saro): colui che dice cazzate, essere con mancanza di senso critico, convinto d’essere depositario della Verità. Dal dizionario Ciccone – Ciccone) ]
Il mio primo film, “Le Sciamane”, parlava di una che soffriva di una rara malattia per cui crollava addormentata quando il tasso di cazzate detto davanti a lei fosse troppo elevato.
Dieci anni dopo mi sono evoluta: Cazzaro, io non mi ti addormento davanti, per rifiuto della tua ottusità o cattiveria.
NO.
Io ti lascio lì a parlare da solo, oppure in caso virtuale, ti cancello, ti blocco, o quel che è.
Tutti, tutti noi esseri umani condizionati da bambini ad uno smodato e mal distribuito uso della pazienza e dell’understatement possiamo finalmente essere LIBERI.
Ho cominciato a sperimentarlo sul bus. (Ve lo consiglio, l’autobus o il treno sono un ottimo campo di allenamento). Vi si annidano molti cazzari. E, ripetiamo a costo di essere pedanti: codesti soggetti vanno e-vi-ta-ti se la vita non ti costringe ad avere a che fare con loro, se non c’è un qualche scopo, se lavoro, condominio o parentele non vi legano a lui. Parliamo di chili e chili di pazienza sprecata, non dimenticatelo.
Dunque, esempio tipo: non ti conosco, non so chi sei, non condividerò con te più di questo viaggio in bus. Tu mi attacchi una mina sugli studenti che rumoreggiano poco distanti (come tutti gli studenti del mondo libero: flirtando, scherzando, facendo il verso ai professori).
E tu, purtroppo, lo fai.
Tu mi dici che i giovani sono tutti maleducati.
CAZZATA.
Io mi allontano. Ti lascio lì a parlare da solo. Tu dirai che sono maleducata, detto da te la cosa mi fa piacere perché mi fai sentire una quindicenne.
Amici. La vita è difficile e non siamo costretti a subire con pazienza le cazzate di chi non abbiamo scelto – o gli dèi non ci hanno scelto – come parte integrante della nostra vita. Ma come regolarci, in generale, che linee guida adottare per non perdere anche solo il tempo di capire che siamo di fronte a una sanguisuga di pazienza?
Personalmente, e vi suggerisco di iniziare anche voi a stilarne una tutta vostra, ho cominciato a segnarmi una personale guida di concetti-allarme per cui metto in moto la macchina sto-per-lasciarti-qua-che-parli-da-solo:
– Quello suddetto dell’anziano o quasi anziano che dice che i giovani non sono più quelli di una volta.
– Di contro quelli giovani o retorici della gioventù che dicono che qualunque cosa non vada nel mondo basta prendere un manipolo di ventenni e via, sarà tutto cambiamento.
– Quelli che usano la parola “cambiamento” a ogni piè sospinto. Scrivevo ieri su facebook che trovo “cambiamento” una parola pessimista e disfattitista. Ottimismo si traduce in “evoluzione” cioè, sono soddisfatto di quel che c’è, di quello che ho nel presente e mi arriva dal passato e si svilupperà sicuramente bene o anche: le cose sono degenerate in una direzione che non mi piace quindi senza voler fare il distruttivo o picconare, rottamare, fare a pezzi la camera di un albergo, penso piuttosto a come trasformare quel che c’è e contribuire a reindirizzare il mondo in una direzione più giusta. Trasformare è una parola costruttiva, Cambiare è una parola distruttiva e disfattista.
Da cui deriva quindi:
– I disfattitisti.
– Gli apocalittici timidi. Se proprio dobbiamo parlare di Apocalisse si vada di Giudizio Universale, acque che si spalancano, vulcani che esplodono, la Terra che si liquefa sotto i raggi del sole diventato un milione di volte più bruciante. Che è ‘sta apocalisse d’accatto di inceneritori che mancano e piccoli buchini nell’ozono? A “Dove andremo a finire” preferisco un bel coraggioso: “La fine del mondo è vicina!!” meglio se accompagnato da campanaccio rumoroso.
– Quelli che fanno male una cosa e citano Pasolini che ha iniziato a fare cinema senza averne idea. Allora, ragazzi. Intanto quello era tipo un genio, quindi stiamo calmi a fare paragoni, ma anche lì si cavalca la leggenda. Non è che “non avesse idea”, era – come tutte le persone di valore – una persona umile e ha detto di essere digiuno di tecnica, cosa che, detto da chi ci ha lavorato, pare non fosse comunque del tutto vero, non è piombato sul set osservando la macchina da presa e dicendo “oOOOHhhh cos’è?? Come si chiama? Macchina da presa, ma pensa. E poi dove si vedono quegli omini che si riflettono qua dentro? OOOoohhHH cos’è, un lenzuolo questo? Uno schermo? cos’è????”
– Quelli che non riescono a fare una cosa e dicono che anche Einstein ha preso tre in matematica, una volta.
– Quelli che anche se hai una ferita piena di pus e una setticemia in corso dicono che è tutto mentale, psicosomatico, colpa dello “stress”.
– Quelli che usano la parola “mistico” più di due volte in mezzora.
– Quelli che parlando di politica usano le espressioni “noi”/ “loro” con toni ed espressioni da Apocalypse Now. Per me in politica esistono avversari, non stai giocando a Risiko e non avrai a disposizione l’arma fine di mondo (per fortuna…).
– Quelli che, soprattutto in rete, ti parlano come se si fosse amici da ottantadue anni quando essere amici è un processo lungo, fatto di anni di reciproca conoscenza, accettazione dei difetti, fiducia e affidamento.
-Quelli che ti danno del tu quando tu dai del lei.
Questa scrematura di tematiche mi aiuta a non farmi invischiare con persone con cui so, di per certo, che non mi interessa condividere il mio tempo o sprecare pazienza, che non è che ce ne distribuiscano una quantità infinita, prima di mandarci quaggiù.
Pensate a tutta ‘sta pazienza sprecata.
E se poi proprio in fin di vita te ne servirebbe un po’, l’hai finita e ti ritrovi a tirare la padella in faccia a un’infermiera che non t’ha fatto nulla?
Sei su un aereo dirottato e, zac, hai finito la pazienza cinque minuti prima per fare “Ah-ha” “Certo” con un signore in fila al check-in e così salti addosso al dirottatore urlando “M’hai rotto le palleeeeeeeeee!”.
Non è molto diplomatico.
Ecco perché ho deciso, soprattutto dopo le assurdità cui ho assistito e che ho sentito (e sto sentendo…) in occasione di questo ultimo show elettorale, che io metto in banca la mia pazienza. Basta, è ora di cominciare a risparmiarne.
Ergo se uno, con cui non sono costretta per un qualunque scopo del mondo ad avere a che fare, rientra nel vademecum “allarme-cazzata”, via, si va via.
Ahahahahha, grazie grazie grazie, la mia è gratitudine vera e piena! Ne avevo bisogno Anne, ma tanto. Vado a mettere in banca la mia pazienza, di corsa.
Mimosa
Mi credi se ti dico che una persona particolarmente sperperona di pazienza a buffo a cui ho pensato scrivendo questo post sei tu, vero?