EROJ (ovvero se si è più bravi quando si resiste o quando si delega)

Parola in voga in questi giorni: dimissioni.

Un evento storico, il Papa si dimette. Quando ho letto la notizia su una prima agenzia Ansa (ormai le riceviamo tutti sul cellulare e conosciamo le notizie in tempo reale nemmeno fossimo tutti dei reporter a caccia di scoop) ho pensato ad una specie di strano scherzo carnevalesco. Il fatto che quest’uomo, quasi confermando la profezia di Nanni Moretti, abbia detto semplicemente “non me la sento più” ha scatenato non solo la goliardia dei social network ma anche la disanima del concetto stesso di dimissione, dis-missione di quel che si sta facendo, del ruolo che si ricopre, della poltrona che si occupa. Frase più letta in giro: “Si dimette il Papa eppure …. (riempire i puntini con il nome del politico che ricopra un certo ruolo dall’autore della frase più odiato) mica si dimette!”.

Avevo un professore di greco, al liceo, odiato più o meno da tutti,  col senno dell’adulta nemmeno poi così bravo nel suo mestiere, in più umanamente livoroso e vendicativo, di cui a scuola chiunque, anche chi non lo avesse come professore, diceva “Aoh e quando va in pensione, quello!” dato che il signore in questione, vedovo e con non troppo da fare, stiracchiava la sua carica oltre ogni limite d’età e legale, sforzandosi di rosicchiare un anno in più, un mese in più, un quadrimestre in più.

Poco tempo fa sono andata in un ufficio ministeriale e ho incontrato una persona che conosco da almeno una quindicina di anni e che sapevo in pensione, ma stava lì, diceva a “sistemare le sue cose”, e quando è uscito gli altri impiegati hanno commentato che proprio gli veniva difficile lasciare.

Quando qualcuno “lascia” il mondo dell’opinione di spezza in due.

Un Papa, si pensa, non può lasciare finchè non muore. Scopriamo invece che legalmente potrebbe eccome, per limiti d’età, per dire.

C’è chi dice che è eroico tener duro nella posizione, anche se non ce la fai proprio più – fisicamente o anche solo psicologicamente – chi dice che è elegante lasciare quando ti rendi conto dei tuoi limiti.

C’è una categoria di persone che personalmente guardo con sospetto, quelli che non finiscono le cose che iniziano. Per me quel che si inizia si finisce, soprattutto quando ci si accorge d’essere recidivi del cominciamentononfinito.

Corsi di qualcosa, scuole, la potatura delle siepi del giardino, quel certo mobiletto per metterci i dvd, l’archiviazione in ordine alfabetico dei propri libri.

E’ stato detto, l’uomo viene sulla terra per cominciare qualcosa, io aggiungerei “magari anche per finirla”.

Ma se un compito che ti sei assunto poi diventa davvero troppo faticoso, persino pericoloso o invalidante per la tua vita? Per il tuo benessere?

Ci sono cose che a un certo punto ci ammazzano ma pur di mantenere il punto ci massacriamo la vita.

Quante volte abbiamo detto ad un amico, un’amica, che vediamo stravolto e stanchissimo per qualcosa che tenta di portare avanti nonostante sia evidentemente massacrato nel corpo e nello spirito: “Ma dai, cazzo, molla!”

Forse, in qualunque cosa della vita, nessuno è veramente così indispensabile, mentre è indispensabile per quel compito chi è utile per svolgerlo.

Fare le cose male e soffrendo, è veramente utile?

C’è una specie di retorica del sacrificio che non è necessariamente solo di matrice cattolica, c’è anche una retorica dell’abnegazione figlia degli anni ’80 che ci fa credere che quella certa cosa possiamo farla noi e solo noi e che saremmo considerati pusillanimi se, per dire, ogni tanto delegassimo, oppure se lasciassimo.

Lasci e vai alle cose che davvero ami e ti fanno sentire vivo e un altro più motivato o più fresco di te prosegue il compito, non è più giusto per tutti?

In questi giorni di discussione sulla dismissione da un certo ruolo e un certo compito e i concetti di eroismo o vigliaccheria a questa legati, ho pensato che ci sono due cose che nella vita quotidiana ci sfuggono: una è che in effetti se uno credesse nell’ideale per cui si sacrifica più che in se stesso, capire di non essere all’altezza in fondo è un atto di passione per l’ideale che si difende;  dall’altra parte invece che se un compito o una missione di cui ci si è investiti ci fa male e ci toglie gioia di vivere, corrisponde a compiere un atto contro se stessi.

In fondo Archiloco con i suoi versi sullo scudo perduto ha scandalizzato i suoi contemporanei, quando si diceva che un guerriero dovesse morire pur di non perdere il suo scudo. Archiloco ha fatto notare che niente ha valore come salvare la propria vita. In fondo da morti, come da frustrati, da isterici, da inaciditi per star vivendo una vita che ci fa male, si è meno utili.

“Mollare” quindi forse non è sempre la scelta di una persona che si arrende, magari è un atto d’amore per la propria vita o per la cosa che si stava facendo. In una società con ansia da prestazione come la nostra ammettere “è meglio che lo faccia un altro, io non ce la faccio” o anche solo “forse è arrivato il momento che lasci il mio posto a qualcun altro” alla fine mi pare più eroico.

scudo

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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