non si può morire per lavoro o per soldi (ovvero come il cinema potrebbe aiutare le persone)

Una strana sensazione che vivo in questi mesi di gravissima crisi, di fenomeni tragici come i suicidi per mancanza di lavoro, per paura del fallimento della propria azienda, per cartelle esattoriali che ti fanno perdere la testa, è che il resto del paese si sia equiparato al mondo che conosco, intese le persone a me più care, i miei amici, che naturalmente nel 90% dei casi lavorano nello stesso ambiente in cui lavoro io. Non è un mestiere in cui sia facile stringere amicizie con tante persone che non facciano parte del tuo stesso ambiente, anche perché è abbastanza difficile comprendere tempi, modi, priorità e quotidianità di chi si muova nel mondo dello spettacolo e/o cultura.

Dunque, ho fatto conto che tra una cosa e l’altra ho aperto la partita IVA vent’anni fa. Mica bruscolini. Quando l’ho aperta ero anche abbastanza terrorizzata, dato che ero giovane, vivevo nel precariato più totale e sapevo bene – anche perché mio padre me lo ha spiegato con dovizia – cosa significasse avere una partita IVA. Ma senza non riuscivi a lavorare “non in nero”, cosa che il mio spirito nordico mi ha sempre impedito di fare. Per una che pensa che verranno a prenderla con gli elicotteri con la scrittona Fbi se sale in bus senza biglietto, lavorare in nero significherebbe vestirsi da spia russa, parlare sempre in codice ed entrare in casa strisciando sui muri, pistola in mano.

Nel lavoro che faccio io, prima come assistente, aiuto, poi come regista, o come sceneggiatrice, i guadagni potrebbero sembrare immensi, comunicando la cifra che ti danno per un lavoro. Uno immagina che sia come una vincita alla ghigliottina de “L’eredità” o nel “Gioco dei pacchi”, insomma un di più che entra nel menage economico normale. Senza contare che venti, trenta, quaranta, fossero pure cinquantamila euro, o fatturarne pure cento, significa se ti va bene devi farti bastare i soldi (tolte le tasse e le varie percentuali che devi pagare in giro), per un paio d’anni.

Anche nei periodi d’oro, non è che vivi da nababbo. Vivi.

Nel periodo in cui scrivi o giri, combatti al telefono per farti pagare puntualmente le rate del tuo contratto, e se questo avviene, vivi. Quando si è vicini alla consegna, hai l’ansietta feroce del cosa sarà di me domani: pochissimi arrivano ad avere assicurati un lavoro via l’altro.

Dunque per te non esiste una vera e propria “vacanza” perché quando non lavori ti senti “disoccupato” e non certo “in vacanza”. O te la strappi subito a fine lavoro, la “vacanza”, nel tuo beato momento di inconsapevolezza, sennò dopo hai troppa angoscia per pensare di andare chissà dove, dato che appunto ti sei fatto un conto di fin dove puoi arrivare con i soldi che hai guadagnato, ed essendo negli anni diventato superstizioso come una serva analfabeta, sei anche CERTO che il giorno che parti ti chiamano per il lavoro della tua vita.

I viaggi che fai e per cui alcuni non del mestiere ti dicono “che culo, sempre in giro, che posti!” sono o per lavoro, ergo pur tu fossi a Parigi, te la ricordi come quella città in cui cucinano con molto burro e per alberghi senza bidet, o viaggi della speranza a caccia di nuovo lavoro.

Come ho detto anni fa in un altro post, la parte davvero divertente e impagabile di ogni lavoro che si scelga, pur a costo dei suoi rischi, è che ami farlo.

Dunque noi che alcuni chiamano impropriamente artisti, che sarebbe più corretto definire artigiani o operatori di intrattenimento e cultura, ci facciamo i conti da subito col fatto che la tua esistenza sarà:

– precaria forse per molti anni, forse per sempre

– per moltissimo tempo pagato poco, pochissimo

– avrai probabilmente molti molti periodi in cui bollette e spese varie ti inseguiranno

– anche quando ti dice bene, devi sempre considerare che per la tua categoria più di ogni altro al mondo la ruota gira (autori o produttori che ho visto a Cannes sul carpet dieci anni fa, magari te li incontri oggi con problemi immensi e una bruttissima cera in un locale e si fanno pure offrire il bicchiere di vino dicendo che hanno lasciato il portafoglio a casa).

Infatti solo i più stupidi hanno la mancanza di lungimiranza da montarsi la testa nei momenti buoni.

Tutto questo se non sei ricco di famiglia, ovviamente.

Se sei intelligente lo affronti senza alcun vittimismo ma con la sensazione di assoluta libertà di chi ha scelto quel che voleva fare, considerando che da un certo momento in poi non ti pare di aver mai fatto altro e comunque non sapresti fare altro. Ma appunto, la consapevolezza dell’impermanenza devi avercela bella radicata per essere felice e considerare che finchè sei vivo e in salute, va tutto bene.

Qualche anno fa mi sono anche impelagata nella produzione, nel senso sono entrata in compartecipazione e ho dato il mio contributo in qualcosa in cui credevo, non nel senso poetico, ma nel suo potenziale anche di oggetto spendibile, aggiungendo ai naturali rischi della libera professione altri rischi personali, considerando che rispondevo solo di me stessa e solo a me stessa potevo fare danno.

Dunque ho conosciuto un po’ meglio la situazione di chi fa cinema – o ancor peggio teatro, danza, musica – dal punto di vista della produzione indipendente.

Da quel punto di vista gli imprenditori di cinema e teatro e musica, sono per natura i più svantaggiati che esistano.

Quelli onesti, naturalmente. Non i ladri per appartamenti che hanno inficiato questo campo per decenni e per le cui sozzure ci troviamo tutt’oggi a doverci difendere tutti, come categoria.

Ma c’è una percentuale di imprenditori ladri nel cinema non maggiore di quella che riguardi qualunque ramo imprenditoriale, nel nostro Paese.

I produttori onesti camminano perennemente su una corda tesa a mezz’aria.

Di imprenditori di cinema onesti che per la loro onestà, attenzione, e non per il contrario, falliscono, ce ne sono stati a grappoli, in questi ultimi tempi.

A volte è uno scenario umiliante e assurdo: falliscono anche loro perché non vengono pagati e quindi non possono pagare, o i pagamenti sono talmente in ritardo che affogano prima, perché anche loro, come tutti gli imprenditori hanno il problema che lo Stato non paga i soldi pattuiti ma le tasse le pretende eccome e guai a tardare un giorno.

Ma la situazione di questi imprenditori è sempre stata vista con distacco snob. Perché appunto “produttore” di cinema o fiction, o teatro, fa subito sigaro, divano e bella vita, e magari ladro. Cioè: comunque sia, dai, se lo sarà meritato di fallire, andare per stracci, finire sull’orlo del suicidio.

Mi è capitato di assistere anni fa alla scena di un produttore storico, di una certa età, che ha prodotto cinema e fiction molto popolari in passato, mentre smantellava il suo ufficio, la fida segretaria paffutella e con tanti capelli grigi che con dignità sistemava faldoni in scatole ordinate e segnate, l’atteggiamento imperturbabile e di grande rigore professionale, esattamente come se l’indomani dovesse tornare in ufficio, come ogni giorno. Anche se lui, il produttore, fingendosi più allegro del credibile mi raccontava che per adesso si sistemava uno studio a casa, che la casa era grande, che aveva usato gli ultimi soldi per la liquidazione della segretaria e mettere a posto un paio di cose ma che aveva tanti progetti, che si sarebbe rialzato, che gli faceva piacere godersi un po’ casa, la famiglia. Avrebbe lavorato da lì… Un po’ come il protagonista de “Il caimano” insomma, che raccontava bene anche questo aspetto.

Di fatto sapevo che la sua società era fallita appunto per soldi non arrivati e di conseguenza conti che non aveva potuto pagare, messa in conto anche l’aggressività di certi fornitori che appunto pur fatturando milioni di euro (all’epoca miliardi di lire) mandano a gambe per aria le produzioni per fatture davvero risibili.

Equitalia da questo punto di vista ha metodi da dilettante, in confronto a certi “fornitori” o società che hanno a che fare con tutta la filiera del cinema.

Sono filiere di ottusità che spesso mettono in ginocchio le case di produzione piccole, o persino quelle che hanno mietuto successi ma appunto, la ruota gira più velocemente che in nessun altro settore, qua.

Dunque, ascoltando e seguendo con attenzione gli eventi tragici di questi ultimi mesi, ho avuto come la sensazione di una vita e una tensione che conosco, che vedo e respiro da sempre.

Cioè quel modo di vivere e resistere che per me, fino a qualche tempo fa, era difficile spiegare a chi facesse alcun altro mestiere, e che magari ti guardava dall’alto in basso perché cresciuto nella società italiana dal secondo dopoguerra nel suo mondo di terziario, lavoro fisso e fabbrichètte, non riusciva proprio a contemplare tanta precarietà, tanto costante rischio d’impresa, tanta aleatorietà.

“Madonna, ma come fai? Come fate?” era una delle affermazioni-tipo delle persone non del mio ambiente di lavoro. “Io al posto tuo, al posto di quel produttore, mi suiciderei.”

Perché poi, sotto sotto, per tantissima gente questi settori sono un pochino inutili.

L’ho sentito dire davvero spesso, non scherzo. Era una boutade, ovvio, ci si dirà.

E no. A quanto pare, non lo era.

E’ molto molto complicato accettare il cambiamento soprattutto quando nasce da qualcosa di ingiusto, quando ti shocka, quando per te e per la tua vita, al di là di numeri e lettere minatorie che ti arrivano a casa, nessuno pare aver pietà.

Adesso pare che in qualche misura siamo tutti diventati inutili.

Che il nostro lavoro, le nostre competenze, il nostro sapere, sono inutili. O meglio: non ti proteggono. Non conta tutto quel che hai fatto, i tuoi sforzi, quanto sei bravo a fare il tuo lavoro, quanta gente lavora grazie a te.

Mi sono resa conto, in questi giorni, che i tanto vituperati privilegiati contro cui inveivano gli pseudo politici in carica nel precedente governo, sono oggi tra i pochi allenati all’odiosa incognita di una vita non programmabile. Non sapere quanto avrai per vivere, per quanto, non avere la più pallida idea se i tuoi progetti e programmi effettivamente si potranno realizzare, e soprattutto sapere benissimo che dovrai lavorare finchè campi, perché maternità, pensione e diritti sociali per le nostre categorie non sono mai stati comunque riconosciuti se non con modalità degne di Oggi le comiche.

La pensione questa sconosciuta per chi fa l’attore, il regista, lo sceneggiatore, il danzatore, musicista, lavora in produzione, è la regola.

Se il produttore non paga l’Enpals, se non ti hanno versato i contributi, ti cercano coi cani. Ma poi ti ritrovi davanti attori, sceneggiatori e registi di settant’anni che hanno fatto film che ancora oggi ci fanno ridere e commuovere, spettacoli storici, che non hanno da mangiare, che se una pensione viene loro riconosciuta, parliamo di un par di cento euro.

Quindi: per me, per gli attori, gli autori, etc che fanno parte del mondo che conosco, cosa c’è di così diverso? C’è ancora meno lavoro, ci sono ancora meno soldi. Ci si cala di più perché è una piena più grossa, ma giunchi siamo e giunchi restiamo.

A volte penso che forse, visto che abbiamo questa forma di “allenamento”, potremmo impegnarci a diffondere il nostro sapere, umano ed esistenziale, in questo momento qua. Spiegare ad esempio che non ci si può e non ci si deve ammazzare per lo Stato, per i soldi, per i ricatti delle tasse, per il fallimento, per l’odiosa incognita del futuro. Che non ci si può e non ci si deve togliere la vita e lasciare nella disperazione mogli e figli, perché non ci arrivi. D’altronde, come è evidente, non cambia nulla, l’eroico o disperato gesto.

Una delle cose che più mi ha colpito al liceo era Archiloco

Ho sempre amato molto gli scrittori greci e latini – le tragedie, le poesie – e come ogni adolescente trepidante ero inizialmente piuttosto impressionata dall’epicità del senso dell’onore, commossa dai morti giovani per un ideale. Finchè non incontro Archiloco, che ti diceva questo:

“Qualcuno dei Sai si vanta dello scudo,arma perfetta, che presso un cespuglio abbandonai non volendo; ma ho salvato la vita. Che m’importa di quello scudo? Vada in malora! In seguito me ne procurerò uno non peggiore.”

Con la nostra insegnante abbiamo riflettuto su quanto avesse ribaltato l’idea dominante d’una vita che valga meno dell’onore; lui forse per primo ha affermato la priorità e la sacralità della vita.

Chi di quelli che mi legge faccia parte del mondo di questo complicato mestiere lo sa bene, chi abbia scelto libere professioni, chi si è assunto il rischio dell’imprevisto, sa quanto tutti, nessuno escluso, almeno una volta siamo stati tanto disperati e umiliati da pensare di farla finita.

Ma non si può per i soldi, per l’assenza di lavoro, per l’idea che abbiamo legato di noi stessi al nostro risultato di profitto nel mondo, togliersi la vita.

Non è uno sportello amico di Equitalia o le belle parole di chi ci sta dissanguando nella più irrazionale delle soluzioni per mettere a posto i conti di un Paese, che possa modificare quest’idea. Noi stiamo assistendo alle conseguenze di decenni di diffusione di questa mentalità: che il nostro valore e diritto di vivere siano legati al nostro profitto e/o alla definizione che i più provinciali mettono davanti al proprio nome su un biglietto da visita: Dott. Avv. Cav.

Il diritto al lavoro e alla salute è un DIRITTO per cui si devono scervellare quelli che hanno scelto di fare politica o si sono prestati per mettere a posto un Paese. Ma noi per ribellarci alla loro inettitudine mai e poi mai dobbiamo cedere la vita per lo scudo. Finchè si è vivi e si sta bene, c’è sempre una via d’uscita, e soprattutto noi non siamo il nostro scudo.

Forse, al di là della rivoluzione di cui avrebbe questo paese in molti sensi, c’è una rivoluzione di mentalità di cui si sente il bisogno, e probabilmente è proprio il momento giusto per farla, se è vero che dalle crisi nascono i cambiamenti.

 

Pubblicato da anneriittaciccone

osservatrice conto terzi

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