In questi giorni in cui la televisione di Stato passa le serate sanremesi mi è venuta in mente la mia storia con Sanremo. Quando sono arrivata in Italia ricordo vagamente di aver capito che si trattava di una sorta di cerimoniale collettivo di cui si parlava come di un cambio di stagione. “Prima di Sanremo”, “dopo Sanremo” o anche “nel periodo in cui c’è Sanremo”.
Un po’ come il periodo delle castagne in cui si perdono più capelli.
Nella mia famiglia siciliana l’evento Sanremo era però visto con un vago distacco snob.
“Mah, la gente sta tutta incollata a guardare Sanremo” aggiungendo, tutt’al più commenti tipo “Un tempo sì, c’erano belle canzoni a Sanremo, adesso però… è inguardabile”.
Di fatto ti rendevi conto che lo “guardavano” anche in casa dei nonni criticoni.
Anzi, definizione che poi ho scoperto essere l’unica accettabile per gli italiani di una certa estrazione sociale e culturale, Sanremo da loro al più
SCORREVA SUL FONDO
Non riusciremo mai ad ammettere tutti compatti: quando c’è Sanremo, se sto a casa e possiedo un televisore e se il suddetto televisore è acceso, non possiamo esimerci dal guardarlo, e, diciamo la verità non lo guardiamo per sentire le canzoni, per giudicarle o perché eravamo lì rosi dall’ansia di vedere George Clooney intervistato da Pippo Baudo, ma perché l’evento Sanremo lascia finalmente che si possa dare sfogo a quel rituale collettivo catartico, meraviglioso, che faceva sentire parte di una collettività la gente di città e paesini nei Sanremi di un tempo e che ora abbiamo ritrovato grazie ai social network:
guardare la stessa cosa per fare taglia e cuci.
Rassegnati. Smetti di stare lì arroccato al tuo libro di Gramsci, piantala col tuo dvd di Kurosawa tra le mani, non toglie niente al tuo essere intellettuale, non toglie niente al tuo livello di QI, culturale o alle conquiste estetiche fatte.
Cuttigghiare (trad: chiacchierare nei cortili) è DIVERTENTE, e Sanremo è l’ultima cosa nazionalpopolare televisiva che non trascende nel “ti porto il poveretto in carrozzella e lo faccio piangere”, nel “faccio parlare la zalla dal pubblico che insulta la ragazza giovane che manco conosce”, nel “metto tre tizi con le sopracciglia depilate a litigare tra loro”.
Ha ancora mantenuto lo stile e la mancanza di pretese dello spettacolo in piazza che guardi mangiando cocomero e lupini, col bambino che magari sale sul palco e fissa le ragazze che ballicciano col vestito di paillettes.
C’è, nel rifiuto della parte popolare di noi, una delle più tenere manifestazioni del provincialismo italiano. Noi sembriamo voler dividere il mondo in bianco o nero anche in questo.
Sanremo è un po’ la nostra notte degli Oscar: vedere chi ce la fa, chi non ce la fa, commentare i vestiti, dire quanto è brutta quella canzone, oppure cose tipo: “Ecco vedi, questa è bella, vedrai che non passa!” lasciando dunque libero sfogo anche alle proprie manie persecutorie di tipo estetico (“E certo, quello che piace a me – ergo è bello – non vince mai..”) commentare quanto ci piacesse più l’anno scorso, insomma posare Majakovskij e magari mettere a posto delle cose in casa mentre Sanremo scorre sul fondo.
Quest’anno mi sono accorta, nella contemporaneità dei nostri commenti incrociati su facebook e twitter che guardare Sanremo è ridiventato improvvisamente davvero divertente come stare in piazza: se non lo stavi guardando, ti veniva voglia di capire che avessero i capelli di Lucio Dalla di così pazzesco, accendevi la tv, ed in effetti era come essere al bar e divertirsi con gli amici virtuali e non, a commentare.
Mi sono ricordata quindi con immenso calore i Sanremi da bambina, con mia sorella, mia madre e mio padre, la tv appunto era accesa ma non ci rapiva del tutto: una cosa che scorre sul fondo fa sì che si parla, si chiacchiera e appunto si commenta. Mi ricordo i commenti di mio padre e mia madre, le risate, e anche il fatto che immancabilmente mi addormentavo su una poltrona, cullata da musica spesso improbabile ma che mi sarebbe entrata nelle orecchie, da visioni di scalinate percorse da donne preoccupate dai loro tacchi infiniti, lo scandalo della spallina di Patsy Kensit, gli abiti assurdi della Bertè, come oggi la farfalla di Belen o il vero scandalo di come la stessa Bertè abbia ridotto se stessa.
Ieri sera mi sono addormentata mentre appunto lui, Sanremo, scorreva sul fondo; Lorenzo mi ha svegliato piano, e mi sono ricordata di quei risvegli pastosi da bambina, quando mio padre mi portava in braccio e io chiedevo “ma chi ha vinto?” e papà mi diceva un qualche nome che avrei dimenticato subito.
Sanremo è Sanremo, ci sarà pure la crisi, il mondo che cambia e l’Ipad, ma uno dei punti fermi è che ogni anno abbiamo qualcosa di cui sparlare.
Ai nostri libri e alla nostra serietà ci torneremo domani.