Ieri primo dicembre per tutta la giornata non ho pensato quasi a nient’altro che non fosse la questione della lotta all’Aids e all’Hiv. Questo particolarmente da quasi dieci anni.
Perché mi è successo di vedere morire e molto malamente una persona importantissima per me e poco dopo un’altra, che avevo conosciuto tramite lui, di Aids.
E’ stata l’esperienza più shockante della mia vita, non posso dire chi è questa persona per ragioni che questo post forse spiegherà: non sono certa che avrebbe voluto, dato che ha un figlio, che sta benissimo, ma la storia cui ho assistito mi ha insegnato che potrebbe creare problemi alla sua famiglia che si sappia come è morto, cosa aveva.
Questo è un grandissimo fallimento della nostra società, che esista una malattia che ci si debba vergognare di avere.
Ci avevo anche scritto una specie di libro, ma non ho coraggio, ammetto pubblicamente, che non ho coraggio di pensare che davvero – come mi ha detto l’altro ragazzo che ho conosciuto tramite lui – raccontare significherebbe fare qualcosa per cambiare il mondo. Almeno per quel che riguarda la faccenda, schifosa, non della malattia che assale il corpo di chi magari ha commesso l’errore di una svista, ma della malattia mentale della gente che ancora non sa e non capisce.
Non vorrei mai fare male a chi ha dovuto nascondersi, a chi mi ha detto non stare qua, vai via, è un brutto posto questo.
Però ieri sera, e stanotte svegliandomi con il magone ho pensato che da anni non facciamo che usare la rete per diffondere, e che io tengo questo blog qua, che fingo di raccontare ma non racconto mai niente di davvero mio. Anche perché detesto quella spudoratezza mascherata da “verità” di cui ho già parlato precedentemente con cui tanta gente splende di esibizionismo. Quindi ho pensato che non devo per forza dire “chi” ma posso dire di quella storia come e perché, sperando che serva un pochino. Insomma, che faccio la regista a fare se raccontare davvero non serve a niente?
Una persona normalissima, eterosessuale, mai usato droga e in generale non particolarmente godereccia ha fatto una leggerezza: è andata a letto con una donna di cui si era innamorato, e quella non sapeva di essere sieropositiva.
Quella persona normalissima, eterosessuale, mai usato droga e non particolarmente godereccia, ha cominciato a stare male, debolezza, sudore notturno. Prima si sono accorti di lei, poi si sono accorti di lui.
Questa persona normalissima e ho dimenticato di dire molto buona, simpatica, generosa e che adorava la vita, ha iniziato la terapia, quella per cui dicono che tanto ormai si vive e non si muore, con l’Hiv.
Ma chissà come e chissà perché invece si ammala di una malattia concomitante. Non se ne accorge subito, va a fare una visita oculistica perché vede delle macchie.
Lo mandano dal neurologo, ma ancora prima che arrivino i risultati, non muove una gamba.
Viene ricoverato. Chiede il mio aiuto, perché non ha nessun altro a cui chiederlo. Così conosco un altro ragazzo che è suo compagno di sventura. Bello, ma con il corpo pieno di macchie e senza capelli.
Anche a lui è scoppiata una malattia concomitante, una specie di cancro al sangue, mi dice.
Quei beghini che urlano contro il profilattico e lanciano anatemi da Sodoma e Gomorra, resterebbero delusi, tanto si trincerano dietro la visione di pervertiti grotteschi e drogati che marciscono nei reparti terminali degli ospedali infettivi.
Per come la vedo io, non esistono dei peccatori nemmeno tra chi di fatto scelga di passare il tempo nelle ammucchiate, e non ho mai saputo giudicare nemmeno chi si droga. Ma diciamo, vediamo il mondo dal punto di vista di questa gente ignorante, che pensa di essere al sicuro nel calduccio della propria tiepida porzione di mondo.
“Eh beh, se la sono cercata”.
E infatti io ho visto questo:
-c’è chi mi ha detto “questa malattia se te le becchi è perché qualcosa, dai, hai fatto”.
-c’è chi, in un ufficio in cui andavo per conto di questa persona malata, quando ho detto “ha l’Aids” ha spinto indietro la sedia, di poco, e si è guardato la mano che gli avevo stretto poco prima.
-ci sono parenti che si sono rifiutati di entrare in quell’ospedale perché avevano paura di un abbraccio.
-c’è chi mi ha detto che quelle non sono cose che capitano alle persone per bene e pulite.
– ho insomma visto il più laido e offensivo dei pregiudizi.
E c’era lui che perdeva una facoltà al giorno, senza mai una carezza o una parola gentile dalla maggior parte degli infermieri con cui litigavo e discutevo solo per aiutarmi a cambiare le lenzuola.
Mi sono resa conto che la maggior parte di quella gente ricoverata in ospedale si vergognava di dire quel che aveva. Ho scoperto che per il proprio quieto vivere quella gente diceva ai colleghi, agli amici, a volte persino ai parenti di averci un cancro. Come se fosse meglio.
Perché se hai un cancro la gente dice “poverino”, dice “se serve vengo a fare la notte” ti dice “di cosa hai bisogno”, si fa il segno della croce. Se hai l’Aids, no, in quel caso sei un personaggio negativo che “dai, qualcosa ha fatto per beccarselo”.
In quell’occasione lì io ho avuto il grande privilegio di avere una lavagna evidente e un gesso sicuro per dividere il mondo in buoni e cattivi, e con la fermezza certa nel capire che non esistono zone di grigio, il mondo E’ diviso in buoni e cattivi: so io chi è corso in aiuto, chi non ha avuto paura, chi si è dato disponibile con il cuore e la generosità, e chi invece ha voltato la testa dall’altra parte, un po’ schifata, chi ha parlato di “fine scabrosa, particolari scabrosi”, pensando di essere migliore, senza rendersi conto di essere spesso parassiti della società e del mondo, cani di bancata che mangiano i bocconi che gli si buttano e hanno sempre avuto paura di vivere e conoscere nulla oltre il proprio recinto. Come ci fosse un ragno enorme nella stanza, persino con una punta di ammirazione ma di quelle in cui si storce la bocca, qualcuno mi diceva “ma a te, chi te lo fa fare, che coraggio”, come se l’andare a trovarli in ospedale, portare qualche pigiama pulito e guardare insieme la tv, fosse entrare dentro una giungla piena di vermi e serpenti velenosi.
La cosa orrenda, per inciso, è che di più che andare a trovarli in ospedale, portare qualche pigiama pulito e guardare insieme la tv, in qualunque malattia terminale di un tuo caro, non puoi fare. Pensate se a quest’impotenza si aggiunga il doverli proteggere dagli sguardi.
In un post forse un po’ troppo serio e personale, confesso che quel mese e dieci giorni in cui ho tenuto la mano a questa persona che moriva la mia vita è cambiata per sempre, spesso appaio un po’troppo severa, perché appunto quella solitudine ma soprattutto dover vedere persone normalissime, che fossero etero, gay o anche tossici magrolini, persone normalissime, che dovevano vergognarsi di essere malate, nascondersi al mondo della gente per bene, assistere in tv a qualche stronzo beghino che diceva che “l’unica prevenzione è non fare l’amore o non godere, e non fare errori”, sì, è una cosa che ti cambia per sempre.
Ieri l’orrore e l’impotenza mi si sono riaccesi ferocemente sentendo gente che dice che la parola preservativo non si deve pronunciare nemmeno. Glieli infilerei nelle loro teste bacate, i preservativi.
Francamente, dopo aver assistito alla morte di quei due uomini che non avevano fatto nient’altro che amare perdendo per un attimo l’attenzione, dopo aver visto la solitudine, le menzogne, la disinformazione, i sospetti per cui ci potrebbe essere chi specula e guadagna anche su una cosa come questa, io francamente su quest’argomento non ho alcuna pietà per gli ignoranti, ne ho molta ma molta meno di quella che hanno loro.
Uso questo spazietto per ricordare che se si abbassa la soglia di attenzione, se non si prendono precauzioni nel proprio sacrosanto diritto di amare o divertirsi ci si rovina la vita, si lasciano soli dei cari che ti adorano, che devono poi difenderti dagli sguardi e dal giudizio e non poter fare altro che restare a guardare per chi non c’è più. Finchè ci sarà solo il preservativo a difenderci, sommergiamo il mondo di preservativi.