Una volta, un bel po’ di anni fa, ho assistito a un dibattito al Sacher, la sala cinematografica romana di proprietà di Nanni Moretti, condotto proprio da lui.
Era il periodo in cui al cinema furoreggiava “Matrix” e una ragazza, chiedendo la parola per intervenire disse: “Premettendo che non sono una che al cinema guarderebbe mai Matrix”…” in evidente furore di piaggeria per fare colpo su Moretti, il quale la interruppe dicendo “E perché mai, che tristezza!” mentre lei proseguiva dicendo che per lei cinema erano solo film uzbeki, armeni al massimo iraniani.
Succede questo fatto strano nel nostro Paese: per distinguersi e pensarsi outsider, più colti più intelligenti, più intellettuali, si fa moltissima confusione su quel che “si” deve dire per apparire appartenenti a quel branco lì. Non c’è niente di più sorprendente della fatica che costoro fanno per apparire il correttivo di un sistema che si ritiene ignorante, nazionalpopolare, trash, pecorone e vuoto. Il correttivo o l’alternativa, diventando quindi parte di un altro branco (o gregge) a cui un anno fa ho dedicato un esaustivo post.
Però certo è complicato quando cerchi di capire cosa devi fare per essere il perfetto fighetto di sinistra, intellettuale ma anche tollerante e aperto al mondo, colto, ma anche amante delle tradizioni popolari, quali i libri che si possono leggere, i film che si possono vedere, le attività che si può ammettere di apprezzare per non parlare di quelle che si può ammettere che ci divertano (il prossimo che giustifica il proprio amore per il calcio dicendo che lo amava anche Pasolini lo prendo a randellate).
Quindi si finisce per dire delle colossali assurdità.
Da qualche anno assisto ad un nuovo capitolo di questa confusione mentale dei filistei colti e riguarda il mio lavoro.
IL CIMENA
(come lo chiamava mia nipote da piccola)
Ho iniziato a fare cinema ormai chi mi segue sa perché, in sintesi sono rimasta folgorata e continuo ad amare del cinema la prepotenza dell’immagine. Del cinema a me interessa propriamente quel che vedo, riuscire a rimettere in scena uno sguardo. D’altronde, è la meno oggettiva delle arti (o degli intrattenimenti) dato che per forza di cosa propone una visione del mondo, una via d’entrata. Poi chi guarda trova la propria via d’uscita in base alla propria esperienza e quel che il suo inconscio coglie in quel vede, foss’anche la ragione per cui ride.
A me interessa l’immagine, e uso un mezzo che è totalmente tecnologico. Spesso dimentichiamo che il cinema è scienza regalata all’arte. Quando nacque, nel 1895, nacque in seguito ad esperimenti scientifici, ma la scienza non sapeva bene che farsene, e finì per essere rubato da occhi attenti e narratori alla ricerca di mezzi sempre più verosimili con cui ri-presentare la realtà. Un po’ come i post-it che sono nati grazie alla formula di una colla venuta male, non appiccicava “abbastanza”. Poi un tizio si è accorto che appiccicava proprio quel tanto che basta per appunti fugaci e impermanenti che a noi smemorati hanno risolto la vita per anni.
Ora, in questo mio inseguimento dello stupore e della paura che provarono i primi ignari spettatori del treno ripreso dai fratelli Lumière, quella prepotenza per cui tu qualunque storia stia seguendo devi rimanere inchiodato allo schermo soprattutto per quanto sia magica e bella e verosimile la finestra sul mondo che è lo schermo, ho studiato il 3D.
Ne ho già parlato, ma quel che mi ha più lasciato a bocca aperta fin da principio è stata una specie di malessere diffuso tra i filistei colti di cui sopra. Prima mi ritrovo ad una conferenza stampa in cui una giornalista fa una domanda a un mio “collega”, dopo aver chiesto a me lumi dei miei primi esperimenti in 3D, insomma chiede a lui che ne pensi. E lui dice “per-carità-è-la-cosa-più-lontana-dal-cinema-d’arte-che-ci-sia” e aggiunge che mai e poi mai lui cederà alla tecnologia, e fa qualche sospirone pensando alla pellicola, ai suoi affascinanti forellini.
Io sono stata molto ben educata per cui mi limito a chiedergli, ma dopo, in privato, se per caso lui non racconti i suoi film scolpendoli nella roccia, dato che la macchina da presa è tecnologia, tecnologia che evolve da più di cent’anni.
Un po’ come certi montatori che alla nascita del sistema Avid si rotolavano inorriditi come se avessero coperto il Colosseo di plexiglass. Poi mi sono resa conto che per la maggior parte di loro era pigrizia e paura di restare indietro: non sapevano usarlo. O meglio avevano paura di qualcosa che temevano di non saper usare.
Quando quel famoso treno sbuffante (ah! Il fascino del treno a vapore!..no?) correva verso la platea più di cent’anni fa alla gente sembrò talmente realistico che scapparono fuori dalla sala.
Quando ci fu l’avvento del sonoro c’è chi urlò alla morte del cinema (artistico) , e più o meno simili scene di panico per strada si sono avute all’avvento del colore.
“E’ finita! E’ tutto finito, siamo morti! Morti!!”
Chi diceva che il sonoro gli metteva ansia, chi che il colore “gli faceva male agli occhi”. Questo perché ovviamente il cinema e una forma d’arte che si esprime con mezzi tecnologici – non è normale che delle immagini si muovano davanti a noi, seduti fermi in una stanza ferma – e quindi ci si deve abituare.
Milioni di persone si sono abituate al punto oggi da perdere lo stupore; di generazione in generazione ti abitui a quelle immagini fin da poppante. Sennò nessuno potrebbe dire che vedere un film in sala è lo stesso che vederlo a casa propria sullo schermo di un computer.
Così come sono continuati ad esistere film realizzati in formati diversi – colore, in bianco e nero, persino muti – fino ad oggi, la tecnologia dei cacciatori di sogni ha perfezionato un 3D più facile da realizzare e più verosimile ed emozionante di quello degli anni ’50.
E’ un formato con cui raccontare storie, messo a disposizione dei registi che lo ritengano più adatto per raccontare un certa storia.
Davvero, come Moretti, da una parte comunque non capirò mai perché il gregge dei filistei colti in merito al cinema pensa che arte significhi solo du’ camere e cucina o grandi panorami e scene spettacolari a patto che ogni panoramica duri sei ore e si parli poco- pochissimo. Che non contino che esiste il cinema come intrattenimento, quello che fa sognare e muovere i piedi per la voglia di ballare – costoro al più accettano un film di intrattenimento a patto che abbia almeno cinquant’anni: col cavolo che avrebbero ammesso di ballicciare un po’ vedendo Fred Astaire, se fosse contemporaneo – e poi vanno in crash mentale se qualcuno che stimano e sanno essere un guru del settore (accaduto due settimane fa con una persona che se non ne sa di cinema lei, che ne mangia da quando era un ovulo…) dice “Certo, Trappola di cristallo, che filmone”: li vedi, a costoro si spegne il sorriso, cercano di capire con lo sguardo se quella stia scherzando, poi vedono che no, non sta scherzando, e allora con le labbra asciutte, l’occhio pallato farfugliano cose insensate per poi allontanarsi confusi. Parlano da soli segnando sulla moleskine: Bruce Willis. Sotto la W. Prima di Wittgenstein. Un po’ come lo studente de La nausea (ho citato Sarte: fanno 1.280 punti).
Ora in questi giorni è uscito un film che è davvero un capolavoro. Almeno per me è la perfezione assoluta: c’è Pina Bausch, c’è il cinema visionario e la regia di Wim Wenders, e c’è il formato che unico e solo puo’ ridarci lo stupore e la verità del teatro: il 3D.
La mia passione per la danza contemporanea e amore per la Bausch, uno dei miei composti miti, ovviamente mi hanno messo nella condizione della spettatrice ideale. E poi l’uso del formato perfetto, immagini bellissime, la sensazione di essere sul palcoscenico. Sono rimasta immobile per 100minuti inchiodata alla sedia e ammetto di aver versato qualche lacrimuccia.
Poi recepisco confuse e blateranti reazioni del fatto – Oh mio dio, davvero imbarazzante – che Wenders abbia usato quel 3D, quella cosa un po’ maravenier-il posto al sole-karaoke-billionarie.
Volgaaare!
La morte del cinema, l’orrido spauracchio per cui: niente, è finita, ormai solo il cinemaccio commerciale, spettacolare, americano, senza storia e senza senso, dominerà sulla terra e sui popoli. Tutti in catene, vestiti con giacche di paillettes e costretti ad ascoltare musica per popolino, roghi di libri – tranne quelli di chi parla con gli angeli – e solo film in 3D ovunque, unica alternativa ad un tv che trasmette solo soap opera, La Vita in Diretta e Verissimo. L’Apocalisse.
Leggo di quella che, pubblicando su facebook un articolo su Bertolucci che dice “Non potrò più fare il mio film in 3D” commenta “E meno male!”
Come dire, meno male non farà “Pierino sculaccia la maestra remake 2011”.
Il tizio che lavora in un cinema che dice “Siamo finalmente riusciti a montare il proiettore 3D” e una – forse la tipa del Sacher – che dice: “Ma siete matti? ! Almeno spero bene sia per Pina” (i rassegnati allo strappo alla regola: “Quel ragazzaccio di Wenders! Ma che sia l’ultima volta, eh?”)
Quelli che “Il 3D? blahhhhh!! Spero che Pina lo facciano anche in 2D, che a me il 3D fa venire la nausea!!!” (i rimasti al treno dei fratelli Lumière in termini di voglia di vedere cose nuove).
Quelli che, confusi, dicono cose tipo “Ah, vedi, ha usato il 3D…E vabbè, senti… certo una cosa è Wenders, certo…non è Avatar..”
E qui metto un punto.
MA CHE CAZZO VI HA FATTO AVATAR?
Correte in massa a vedere delle commedie italiane di quelle con la benedizione di un qualche guru radical chic, su cui francamente si potrebbe sparare come sulla Croce Rossa, leggete romanzi da passaggio a programma fichetto Rai 3, che a leggerlo una prima volta ti chiedi se quel capolavoro annunciato non fosse nascosto da un codice: leggendolo al contrario, trovi il capolavoro … e poi ve ne uscite come quella tipa: “Io non vedrei mai un film come Avatar”?
Perché? Puo’ piacere, non piacere, è solo un altro film di intrattenimento.
A vedere Pochaontas con i bambini ci andate e poi gli attaccate la pippa dei nativi americani mentre comprate loro il gelato alla soia, ma perché, aver voglia di rilassarsi e vedere un cazzatone, ma almeno messo in scena bene, no. Prima devo pormi il problema politico (“Minchia, mi sa che è un po’ di destra, Avatar…forse è trash…E’ trash? penso di sì, sta a ffa i soldi… deve essere trash per forza..”)
C’è gente che mi ha parlato di Avatar come fosse il bunga bunga di Berlusconi, la corruzione dei politici, i reality con quelli che mangiano interiora crude per vincere cinquantamila dollari…
La notizia sconvolgente è che Avatar è un film. Già è solo un film. Sì, lo so, potrebbe fare pensare che dietro c’è un lavoro degli alieni che hanno messo dentro dei messaggi subliminali che ci portino a uccidere il vicino di casa o che ci facciano piacere all’improvviso il fucsia. Ma no. E’ solo un film di intrattenimento, in cui quel regista – quello di Titanic, ergo uno che non ha mai nascosto di voler fare polpettoni un po’ melò per le masse mondiali – ha applicato
UN FORMATO.
Vorrei rassicurare i confusi da questo nuovo fenomeno indecifrabile che è il 3D nella società moderna, che appunto si fanno domande tipo se il 3D è di destra o di sinistra, che si tratta solo di
UN FORMATO.
Una volta un regista mediorientale incontrato a un festival, uno che gira con mezzi poveri e macchine da presa obsolete – su cui ho letto recensioni da nove stelle per “la povertà essenziale e scarna” del suo cinema – mi ha raccontato che sono costretti a farlo così per le loro condizioni economiche, e che non vedeva l’ora di fare i soldi per poter girare con macchine più evolute, si diceva appassionato di digitale, di RED CAM, (niente pellicola, niente forellini né Alfredo che fa girare le bobine) e diceva di non vedere l’ora di poter essere in condizione di offrire immagini più belle. Cioè, quel che non si tiene da conto, come una tizia snob che girando per le stradine di Napoli esclamò “Che fascino, i bassi napoletani!” rischiando una padellata in faccia, è che certa povertà di essere o povertà di mezzi o di immagine, in quei posti lontani e pittoreschi quasi sempre è una necessità, non una scelta registica, uno stile voluto o un souvenir per turisti.
Qualunque regista di talento sogna di offrire belle immagini agli spettatori, cerca di capire come rendere “bello” cio’ che racconta.
Dunque con questo post vorrei tranquillizzare chi ha impiegato tutta la vita ad allinearsi al vademecum del perfetto radical-chic intellettuale, che il 3D non vi morderà e potete serenamente dire che avete visto un film in questo formato,quando vi ritroverete a chicchierare alla prossima presentazione di libro in una chiesa sconsacrata, durante il cocktail con fave, pecorino e salame di montagna. Insomma: un invito a darsi una calmata, tenendo da conto il senso più importante che abbiamo: il senso del ridicolo.
