Nel mondo virtuale, soprattutto nel social network, si manifesta quotidianamente e in maniera anche esasperata, una cosa che avevo studiato con interesse all’Università – primo o secondo corso di psicologia, non ricordo – che si chiama “autopresentazione”, come noi vogliamo essere visti dagli altri. O anche e forse più come noi ci vediamo.
Ci pensavo ieri, ero su facebook, guardavo l’iconcina della mia foto e mi sono detta “oggi non mi rappresenta”.
Così mi è venuto in mente quanto mi influenzi la foto o la descrizione di sé che fanno le persone che chiedono di aggiungersi tra i miei contatti (chiedere l’amicizia forse è un’espressione azzardata).
“Come noi ci vediamo”
credo sia l’argomento più spinoso dell’esistenza umana. Mi pare che sia diventata anche la malattia del nostro tempo. Un bisogno frenetico d’autopresentazione, si è disposti anche a parlare delle proprie mestruazioni, raccontare del proprio intestino, mettersi a nudo di fatto o metaforicamente pur di dire: “Ci sono, cazzo! Guardatemi – però ve lo dico io come sono, io sono così”. Spesso si giustifica questa frenesia chiamandola “sincerità”, in fondo è solo spudoratezza, la stessa con cui un bambino passa in bici sul vialetto davanti a mamma che chiacchiera con le amiche, urlando “Mamma, mamma, senza braccia!” (indimenticabile la risposta della mia una volta al campeggio: “Sta attenta che non diventi senza denti”).
La cosa che personalmente mi ha sempre più affascinato della nostra apparenza è il fatto che cambiamo, e la domanda che mi faccio e che faccio a chi legge è:
Ma ti ricordi almeno un momento in cui sei cambiato?
Ho sul desktop del mio computer foto mie e dei miei cari, da bambina ad oggi che cambiano “ogni cinque secondi”. Questo scorrimento crea fotogrammi di me bambina coi capelli rossi, me più grande con le guanciotte, me con mia sorella, me ragazza, me donna, me col cane, il mio compagno, i miei amici, mia madre giovane, mio padre come lo ricordo, le mie nipoti piccole/più grandi, me sul lavoro etc.
Quando avevo 23 anni un amico attore di quaranta mi disse una cosa che mi è rimasta impressa fino ad oggi. “Ogni mattina vado allo specchio e mi aspetto di trovare un ragazzo, invece c’è un signore che mi guarda”.
Ma noi ci ricordiamo l’istante esatto in cui ci siamo accorti, nello specchio o da una foto che non eravamo più guanciotte/occhi ingenui, ma: viso più scavato/occhi stanchi? Si diventa donne e non più ragazze, uomini e non più ragazzi quando si smette di dire “Guarda che faccia sciupata che ho oggi.” e si ammette “Minchia le rughe?”
Quando non vediamo qualcuno per tanto tempo ci accorgiamo che è cambiato, che il suo aspetto non è quello che avevamo memorizzato, che forse anche i suoi gesti e la sua voce si sono modificati. Un bambino che cresce lo vede chi non lo vede tutti i giorni. Solo chi vede tuo figlio periodicamente ti dice “Ammazza quanto è cresciuto!” tu non lo vedi, e infatti lo misuri poggiandogli la schiena sullo stipite di una porta per accertarti che cresca.
Ma c’è quel giorno che sta facendo colazione, tu sei indaffarata, ti giri, lo guardi e dici “Mio dio, non è più un lattante”.
Allora mi chiedevo oggi: ci accorgiamo del momento esatto, del compimento di quel ciclo di sette anni nei quali abbiamo cambiato ogni nostra cellula e siamo decisamente “diversi”?
Sempre mia madre mi diceva quando ero piccola “Non guardarti spesso allo specchio, sennò finirai per vedere solo difetti”. Lo specchio che invece guardiamo di sfuggita ogni mattina pettinandoci, quanto ruba di quei cambiamenti nell’apparenza, e dove vanno a finire tutti i vecchi “noi” : i modi di dire di un periodo, le nostre incrollabili idee, quel gesto che perdiamo con il tempo, il gusto per un colore, la convinzione che un certo taglio di capelli ci stia meglio di un altro?
E perché fino ad una certa età la gente insegue quel cambiare come la cosa più eccitante della vita, si guarda allo specchio sperando nei baffetti (i ragazzi) in un accenno di tette (le ragazze) e a volte non esattamente in questa associazione di genere, e quando invece inizia il momento in cui assistere a dei cambiamenti fisici o caratteriali (“perché non mi diverto più a certe feste?”) ci terrorizza?
Forse è per questo che qualcuno di noi nella sua autopresentazione cerca di frizzare (come dicono in tv) una immagine ferma, immobile, corrispondente a quel che si vuole che gli altri vedano di noi, un certo personaggio e altri modificano qualcosa continuamente perché effettivamente, si sentono o vedono diversi. Sono arrivata alla conclusione, riguardo quello specchio che è il mondo dei social network che l’immagine che decidiamo di mettere per rappresentarci è quel che abbiamo visto nello specchio la mattina: a volte ci vediamo bambini, a volte dei fumetti, a volte abbiamo voglia di farci vedere tristi, a volte molto belli (insomma più belli che si possa rispetto al potenziale ma gli effetti photoshop aiutano fino a trasformare un rospo in un’affascinante diva anni ’50 e se uno si vede così…).
Un video che ho trovato geniale e che ho infatti postato più volte proprio su facebook è quello di un fotografo visionario e talentuoso, che ha fatto la più semplice ma universale delle cose: si è fotografato ogni giorno per sei anni. Lo ho visto una decina di volte, ma riesce sempre a commuovermi. Lui è sempre lui, lo sguardo sempre il suo, ma – impercettibilmente – si è trasformato completamente, tra l’inizio e la fine del video.
Riusciamo a ricordare almeno uno di questi impercettibili cambiamenti?